L’importanza del fuori campo in fotografia è uno degli argomenti sui quali non mi stanco di insistere durante i miei laboratori. Lo spazio che si estromette dall’inquadratura è spazio annullato, “materia” invisibile consegnata alla sensibilità incontrollabile dello spettatore. Il fuori campo, che può diventare pure il soggetto principale di una ricerca autoriale e sperimentale, va quindi soppesato con perizia, sia che si pratichi una fotografica narrativo-didascalica, sia che ci si dedichi a lavori più evocativi.
In ogni caso, senza addentrarci in ragionamenti che rinvierò ad altri articoli, l’importanza di inclusioni ed esclusioni è determinata dal fatto che la fotografia ha dei bordi. Bordi connaturati alla fotografia stessa e fatalmente funzionali alla sua riuscita, che devono essere pertanto trattati con rigore formale e – a mio parere – soprattutto concettuale.
Ripescando così l’etimologia della parola “bordo”, che deriva dal francese bord e indica nello specifico l’interno della nave, la mia riflessione odierna sul fuori campo, o sul fuori bordo, approda all’idea di viaggio, anzi, a quella tipologia particolare di viaggio che è il flusso migratorio.
Il tema è complesso e attualmente drammatico, ma tenterò di ricondurlo nei limiti del fotografico, partendo da un cenno leggero, autobiografico e non antropocentrico.
Nella bella stagione, prima dell’imbrunire, ho l’abitudine di ritagliarmi un quarto d’ora in terrazza a osservare le rondini che si rincorrono incessantemente intorno agli edifici che circondano la mia casa.
Le rondini sono esseri a cui appartiene più il fuori campo che l’inquadratura. Quando le si fotografa, si ferma un altrove che è già nel loro sguardo e che non rientrerà mai nel nostro obiettivo. Quel che è conservato o captato dai loro occhi è negato ai nostri. Portano tra le piume porzioni di mondo in cui si muovono mari, scoppiano bombe, si abbattono uragani, cambiano stagioni. Ciò che loro attraversano annualmente (e complessivamente) in volo può solo essere tradotto per noi, in parte infinitesimale, da certe immagini di reportage.
Gli uccelli, ma tutti i migranti, umani compresi – non dimentichiamolo – varcano con fatica soglie che noi ci limitiamo a osservare, a casa nostra, tra i bordi di una fotografia. Non c’è polvere sui nostri occhi, né salsedine a seccarci la pelle o pioggia a inzupparci i capelli.
Siamo reciprocamente fuori campo.
Le rondini che sopravvivono al lungo viaggio, tornano ad annunciarci che la primavera è arrivata. Incuranti di essere simbolo di rinnovamento e buon auspicio. Incuranti di ricambiarci lo sguardo che rivolgiamo loro con una fotocamera. Mai disposte ad arrestare il volo per compiacerci. Per un prezioso istante dentro la nostra ristretta area visiva, perennemente fuori dal nostro campo immaginativo che spesso, come accade in fotografia, sembra essersi perduto per sempre.
Altrove
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Bello e ricco, come sempre Laura!
Si, la fotografia, nella sua forma più riuscita, può farci vedere, sospettare, immaginare, evocare, questa è la parola.
Scianna ci ricorda sempre che la fotografia mostra, non dimostra.
Grazie Gabriella, i tuoi commenti mi sono cari e preziosi.