Archivio mensile:maggio 2016

Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.

 

 

Due cuori e un capanno

 

Tarzan, Cheetah e Jane
Tarzan, Cheetah e Jane durante le riprese di un film

Qualche settimana fa, accompagnata da due cari amici che praticano seriamente la fotografia, Gabriella Martino e Gianni Rossi, ho visitato una piccola oasi naturalistica appena inaugurata e adibita al birdwatching. Il percorso, guidato, prevedeva l’accesso ai capanni ove i fotografi, dopo aver pagato una tariffa oraria, potranno appostarsi in attesa di un esemplare disposto inconsapevolmente a posare per loro. Capanni, o meglio piccole casette confortevoli, calde e dotate di un grande vetro che si affaccia direttamente sull’habitat di pregevoli uccelli stanziali e migratori.
Suscitando spesso dubbi tra i miei colleghi, dubbi che ancora non mi sono chiari, da anni presto molta attenzione alla fotografia naturalistica, poiché ne intravvedo le potenzialità autoriali. Eppure il pomeriggio trascorso in quel piccolo spazio incontaminato mi ha lasciato perplessa e irritata.
Credo fermamente nella componente esplorativa della fotografia, che certo va ben oltre la sua applicazione squisitamente scientifica: ed è in particolare quando essa si rivolge a soggetti botanico-faunistici, che ne riconosco le origini risalenti alle primitive incisioni rupestri, indiscusse eredità ancestrali del nostro bisogno di esprimerci e comunicare. L’Homo sapiens ha da sempre sentito la necessità di rappresentare e rappresentarsi, di rapportarsi creativamente, insomma, con la realtà che lo circonda, attribuendole significati e simbologie sovente “saccheggiate” proprio dal mondo animale o vegetale.
Per questo motivo, penso quindi che il segreto per una buona fotografia (non solo naturalistica) non derivi tanto dal possedere un adeguato corpo macchina, quanto piuttosto nel divenire noi stessi corpo dell’ambiente che decidiamo di sondare. Tradotto in termini più semplici: chi ha una visione antropocentrica dovrebbe cercare di farsi uomo tra gli uomini, chi, al contrario, allarga la sua ottica all’intero mondo naturale, dovrà sforzarsi di farsi animale tra gli animali, o albero in una foresta.
Sostare/spiare ore dietro a uno schermo, comodamente seduti su una morbida poltroncina girevole, sperando che un airone distenda le sue ali per essere catturato da un obiettivo, invece, è altro e ha una componente voyeuristica molto marcata. Componente che certo appartiene alla fotografia, che di per sé non è disprezzabile e che ha fornito esempi notevoli nella storia della fotografia e delle arti visive in genere, ma che resta comunque altro.
Consideriamo che cose e attitudini reclamano di essere chiamate con il loro nome. E che amare la natura, amarla fino a volerla interpretare con la fotografia è materia su cui riflettere senza concederci sconti.
Lo insegna egregiamente Jean-Christophe Bailly, ne Il partito preso degli animali, libro suggeritomi felicemente da Gabriella: «(…) immaginare quello che accade e quello che si prova – quello che c’è – quando, per esempio, si sta a trenta metri dal suolo e si salta di ramo in ramo, oppure che cosa c’è e cosa comporta avere un corpo che pesa venti grammi e percorre migliaia di chilometri (le rondini) o, all’opposto, averne uno di parecchie tonnellate con cui entrare nell’acqua di un fiume (gli elefanti). E via dicendo. Dunque immaginare le sensazioni che provano gli animali, da dove derivano le loro gioie e le loro frustrazioni. Non perché può essere divertente, ma perché da ognuno di questi percorsi la nostra visione del paesaggio riemerge allargata, arricchita, emancipata».
Capite bene che tutto ciò, al riparo e dietro a un vetro, non è possibile.

Ti scrivo una fotografia

© Sandro Bini "#41" dalla serie "Archidiario", 2015
© Sandro Bini “#41″ dalla serie “Archidiario”, 2015

Ti scrivo una fotografia: suggerimenti, modelli, metodi, forme e grammatiche di base.

abc
Parte prima/Foto singole, dittici, trittici.
Un segno di interpunzione: un punto, una virgola, raramente un punto e virgola.
Un geroglifico.
«Un graffito inesplicabile perché del tutto inutile», come canta Ivano Fossati.
Un glifo.
Una runa.
Un nodo parlante degli Incas.
Un logogramma.
Un epigramma.
Un codice.
Un referto.
Un documento.
Il proprio nome e quello degli altri.
Un emoticon.
L’acronimo intraducibile di un writer.
Una scritta in braille.
Una metafora. Meglio ancora, una kenningar islandese citate da Borges nella Storia dell’eternità (esempi: “rocce della parola” = i denti; “tetto della balena = il mare; “pavimento delle tormente” = la terra; “ruscello dei lupi = il sangue).
Una terzina (di Dante, fra le più conosciute: “Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scender e ‘l salir per altre scale”).
Un sillogismo (suggerisco quelli di Lewis Carrol).
Uno haiku. Anche un solo ideogramma.
Un pops di Kerouac.
Una poesia su tre righe di Ungaretti.

Parte seconda/Una piccola sequenza (dalle 4 alle 12 immagini su per giù)
Un pensierino ripescato su un quaderno di prima elementare.
Una filastrocca o una conta per giocare a nascondino (per chi ama il non sense o la fotografia en abyme).
Una fiaba.
Un curriculum vitae (CVE standard, massimo due pagine).
Un appunto.
Una nota a margine.
Un apoftegma (più “visivo” di un aneddoto).
Un racconto breve (due Raymond: Carver, fra tutti, ma pure Queneau in Esercizi di stile).
Una lettera di Viktor Šklovskij in Zoo o lettere non d’amore.
Una missiva qualsiasi.
La lista della spesa.
Il testo di una canzone.
Una poesia (cfr. Wislawa ).
Un riassunto.
Una quarta di copertina.
Un foglietto illustrativo.

Parte terza/Una lunga serie, un progetto perennemente in fieri (dalle 20 immagini in avanti, senza un limite)
Un romanzo.
Un diario.
Una biografia/un’autobiografia.
Un saggio.
Un testo teatrale.
Una sceneggiatura cinematografica.
Un testo di anatomia, botanica, astronomia e via dicendo.
L’anagrafe cittadino (anche canino).
L’elenco toponomastico di una città.
Il taccuino di un esploratore.
Gli atti di un processo.
Un libretto d’istruzioni in più lingue.
Il catalogo dei prodotti un’azienda.
Le sigle alfanumeriche di un inventario (cfr. di una biblioteca).
Tutto ciò che prevede un eccetera… in calce

Perdonate l’elenco incompleto: il suffisso grafia, in una foto, continua ad avere un peso e un senso ben più estesi di questa mia modesta manciata di voci.

Fedeli alla linea

© Mauro Quirini, dalla serie "Non ricordo dove", 23 aprile 2014
© Mauro Quirini, dalla serie “Non ricordo dove”, 23 aprile 2014

Nel saggio Nature, pubblicato nel 1836, ovvero tre anni prima della messa a punto della fotografia, Ralph Waldo Emerson scriveva: «La prosperità dell’occhio sembra esigere un orizzonte. Non saremo mai stanchi finché riusciremo a guardare lontano abbastanza».
Ora, che si parli di pittura, fotografia, cinema, insomma di arti visive in generale, la linea dell’orizzonte è materia che, all’interno di un’inquadratura, dovrebbe essere trattata con la dovuta cura. Anzi, per il flusso di immagini che mi capita di vedere quotidianamente, affermerei con decisione che dovrebbe essere trattata con maggiore cura.
Anche se questo spazio tratta di fotografia, non a sproposito ho esordito con una citazione che ne precede l’immissione sul mercato: suggerisco infatti a coloro che usano una fotocamera e che hanno a che fare con gli orizzonti, di andare a ripescare quantomeno un spicchio di storia dell’Arte che fornisca indicazioni preziose in merito. La pittura olandese, per estrapolare un esempio su tutti, che molto ha da insegnare sull’argomento.
Oppure, tornando in epoca contemporanea, di leggere il “sempreverde” Panofsky, che nel 1984, a tale proposito spiegava: «L’orizzonte dipinto, che costituisce l’altezza d’occhio di chi osserva, determina se le linee di fuga si dispongano in senso ascendente o discendente (…)».
Determina perciò – e non tanto in senso fisico, quanto simbolico – il nostro rapporto con la realtà che osserviamo. Rapporto che, per poter essere credibile, deve essere coerente.
Non basta dunque la distinzione da manuale per dilettanti tra landscape (immagine in cui la linea di orizzonte lascia più spazio alla terra) e skyscape (immagine in cui si concede maggior porzione al cielo).
Pensiamo solo a come Joseph Koudelka “straziava” gli orizzonti in Caos, portandoli a storture vertiginose ma funzionali, confrontiamoli con quelli perfetti degli Seascape di Hiroschi Sugimoto.
Ragioniamoci su, recuperiamo significati che possano essere utili alla nostra progettualità.
E nella riflessione, abbandoniamo la fotografia ancora una volta, andiamo a scoprire l’etimologia di questa parola, che deriva dal greco e descrive un cerchio, ancor prima che una linea. È ciò che ci circonda, che delimita il nostro sguardo.
L’orizzonte è un concetto, un simbolo, una metafora: può essere ristretto, allargato, perduto, sinonimo di futuro, caricato di disillusioni o speranza. È una miniera che contiene ricchezze da estrarre e applicare con cautela.
Persino le neuroscienze guardano alla nostra intelligenza emotiva come a un paesaggio dall’orizzonte personalissimo e cangiante.
Assumiamo la linea dell’orizzonte come una buona medicina, allora, senza dimenticare di leggerne attentamente le modalità d’uso più consone al mantenimento del nostro stato di salute fotografica.

 

Mi fa(ccio) un “Autographer”?

 

Monile "Lover's eye" di epoca Vittoriana
Monile “Lover’s eye” di epoca Vittoriana

L’hanno chiamato Autographer ed è un aggeggino che si può portare al collo, alla cintura o su un cappello.
Un gingillo di 58 grammi, ma, anzitutto, una fotocamera in grado di realizzare circa 200 immagini al giorno, decidendo in autonomia quando scattare.
Ne parla acutamente Giovanni Fiorentino nel suo libro Il flâneur e lo spettatore – La fotografia dallo stereoscopio all’immagine digitale (Franco Angeli, 2014), descrivendone le caratteristiche tecniche e le funzioni: «L’apparecchio scatta indipendentemente dall’indossatore grazie a una serie di sensori e a un GPS integrato che lo fanno reagire a una varietà di stimoli esterni. In particolare il movimento, i cambiamenti nella luce e nella temperatura, la prossimità di oggetti e persone».
Lo ammetto, quando ho letto di Autographer, l’ho subito desiderato. Per ragioni diverse: la prima – evidentemente – è stata quella di poter togliere di mezzo la mia volontà e demandare la realizzazione di una fotografia a una sensorialità diversa, ormai “arrugginita” o sovente controllata. La seconda, sempre inscritta nella sfera dei sensi e della corporeità, quella di poter affidare a regioni fisiche differenti dagli occhi il compito di catalizzare gli stimoli esterni.
Perché nel posizionare il” fotomonile”, saremmo comunque noi a decidere quale parte anatomica far interagire con il mondo.
Cosa registrerebbero il mio petto, i miei fianchi o la caviglia durante l’arco di un’intera giornata?  Non conosco certo la risposta, ma la domanda mi affascina e pure molto. Allora continuo a interrogarmi e mi chiedo: avere questo tipo di ambizione, non è infondo un ulteriore e supremo atto di narcisismo? Un atto che coniuga l’inconscio tecnologico direttamente e in maniera fatale e perturbante con il nostro inconscio.
A ben vedere, il termine Autographer, si accorda con l’autografo chiesto alla star di turno, un segno su carta bianca che ha un valore profondamente feticistico.
Il ciondolo resta ancora nella lista dei miei desideri. Devo solo capire se davvero me la sento di inciampare in un altro stagno, sedotta da ciò che di inedito potrebbero restituirmi alcune zone inesplorate di me stessa.