Nobel oblige

Domenico Torti, "L'assunzione della giovane arte Fotografica nel cielo delle arti belle", 1882 [particolare]
Domenico Torti, “L’assunzione della giovane arte Fotografica nel cielo delle arti belle”, 1882 [particolare]
Premessa: l’articolo di oggi è un divertissement.

Allora, la questione è: se la fotografia è (anche) scrittura e si fa leggere, esistono fotografi che potrebbero concorrere al premio Nobel per la letteratura?
Tentiamo subito di determinare due serbatori stilistici entro cui pescare le nomination: racconto, quindi prosa – e poesia.
Nella prima categoria chi ci potremmo mettere? Iniziamo da due grandi reportagisti, due “Bob”, visto che il nome ultimamente va alla grande in quel di Stoccolma: Robert Capa e Robert Frank.
Se ricordiamo che Alfred Nobel fu l’inventore della dinamite, allora Bob Capa, al secolo Endre Ernő Friedmann, avrebbe doppiamente diritto a una candidatura postuma, dal momento che morì esplodendo, in servizio ad Hanoi, dopo aver poggiato il piede su una mina. Le sue immagini della guerra civile spagnola o dello sbarco Anglo-Americano in Sicilia o in Normandia, per citare qualche esempio, non equivalgono e superano forse intere pagine redatte da penne illustri sull’argomento?
E che dire di “Bob” Frank con Les Américains (1958)? Chi meglio di lui ha saputo narrare un viaggio in una terra tanto celebrata? Innegabile che la scrittura nella sua opera abbia avuto un peso specifico non sottovalutabile, peso rincarato dalle forti influenze che il fotografo subì in quegli anni, stringendo amicizie con gli esponenti della Beat Generation e in particolare con Jack Kerouac (cui si deve la prefazione a Les Americains, appunto).
Stesso discorso può valere per William Eugene Smith o James Nachtwey, accomunati da una vena estetica da cui la letteratura non è certo esente.
Un pensiero lo farei pure sui micro racconti di cronaca di Wegee, cinici e impietosi, perché persino i “cattivi” sanno (de)scrivere bene e vincono premi.
E non dimenticherei gli italiani attenti al concetto di narrazione fotografica. Propongo un nome, uno su tutti, principalmente per ridargli, post mortem, il ruolo che merita: Luigi Crocenzi. Quale perdita per noi, se non fosse mai uscito, nel 1953 Conversazione in Sicilia, primo vero esempio di photo text concepito con Elio Vittorini? Nobel immediato, senza passare dal via!
Vogliamo spostarci a Oriente? Consideriamo Daido Moryama, la sua prosa visuale – chiamiamola così – frammentaria e inquieta, sia in versione monocroma che a colori. Fotografie senza segni di interpunzione. Roba a cui la commissione svedese è abituata: il premiato William Faulkner, in Intruder in the dust (Non si fruga nella polvere – magistralmente tradotto in italiano da Fernanda Pivano), produsse, in preda a un flusso di coscienza, più di venti pagine senza mai metter un punto tra un periodo e l’altro.
E se decidessimo di inserire nella lista dei fantafotonobel un artista concettuale? Bene, allora ci sarebbe posto per Sophie Calle con alcuni lavori specifici, va da sé: in primis con La Filature (1981), diario fotografico corredato di appunti, realizzato dopo aver assunto un detective che la pedinasse e la riprendesse a sua insaputa. O con serie quali Gotham Handbook, Le Régime chromatique, Des Journées entiéres suos le signe du B, du C, du W , pensate, tra il 1994 e il 1998, assieme allo scrittore Paul Auster, scrittore che, fra l’altro, inserì la Calle sotto falso nome tra i protagonisti del suo romanzo Leviatano.
Passiamo alla poesia: direi che le cose qui si complicano un po’, poiché un nesso esplicito con la poesia ci deve essere.
Fosse sufficiente il lirismo intrinseco a certe immagini, allora potrebbero rientrarci, ahimè entrambi postumi, Eugène Atget e Brassaï con lo spleen di cui sono grondanti le loro visioni flanêuristiche di Parigi o il mio amatissimo Joseph Sudek, per anni autorecluso in micro giardini “magici” di cui ha restituito tutto l’incanto.
No, bisogna trovare agganci autentici: autentici quanto i 365 scatti che costituiscono Infinito di Luigi Ghirri, dedicato al neo Nobel Bob Dylan o quanto i lavori di Mario Giacomelli ispirati alle poesie di Cesare Pavese o all’Antologia di Spoon River.
Andando lontano, oltre i confini nazionali non dobbiamo dimenticare l’ascetico Minor White, poeta oltre che fotografo, il quale sovente non concepiva l’immagine avulsa dalla poesia che l’aveva ispirata, e viceversa.
Tanti, inoltre, sono gli autori che hanno voltato lo sguardo a est per indagare la relazione che esiste tra fotografia e haiku: a partire dal “grande vecchio” Alfred Stieglitz, che tentò dichiaratamente di fare immagini singole che funzionassero come le stringate composizioni giapponesi  (Apples and Gable, del 1922 ne è un esempio noto e lampante), fino ad Abbas Kiarostami, scomparso da poco, o alla viva e vegeta Rinko Kawauchi, appartenente a una generazione di fotografi nipponici inclini a riprendere visivamente i concetti espressi dalla tradizione elegiaca del loro Paese.
Insomma, volendo basarsi unicamente sul mio elenco soggettivo e incompleto, i criteri per un’assegnazione ci sarebbero tutti. Ma un fotografo difficilmente vincerà un Nobel per la letteratura. E – mi vien da aggiungere – per fortuna. Già esistono appositi riconoscimenti fotografici che si tirano appresso discussioni sterili e infinite.
Io mi sono divertita a immaginarmi una rosa di papabili, poiché penso che i ragionamenti votati alla contaminazione fra la fotografia e le altre forme espressive e fra la scrittura in particolare, siano sempre un buon esercizio.
Il resto, se starete al gioco, lo lascerò alle vostre considerazioni e ai vostri desiderata da fantagiurati.

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