Innesti/Teatro: intervento di Laura Croce

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“INNESTI – PICCOLI INTERVENTI DI GIARDINAGGIO VISIVO” è una nuova rubrica, a cadenza variabile, che propone conversazioni “germogliate” sulla fotografia e sviluppate con persone e professionisti che operano in settori differenti.
A inaugurarla, oggi, è un’interlocutrice a cui sono legata da un’amicizia decennale e che apprezzo molto dal punto di vista professionale: Laura Croce, attrice, regista e didatta, che svolge un’intensa azione con l’associazione “Murmuris” fondata a Firenze, città dove vive dal 2004. “Murmuris” è una compagnia residente al Teatro Cantiere Florida che si occupa di produzione, formazione e organizzazione di festival e rassegne.

Laura Croce durante lo spettacolo "Né bocca, né naso, né occhi" - Produzione Straligut - regia di Fabrizio Trisciani
Foto © Costanza Maremmi, Laura Croce durante lo spettacolo “Né bocca, né naso, né occhi” – Produzione Straligut – regia di Fabrizio Trisciani

 

Laura, benvenuta in giardino! Oggi parleremo di fotografia e teatro.

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È curioso che questa tua sollecitazione arrivi proprio nel momento in cui sto studiando Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Un primo studio, che mi ha dato molta soddisfazione, ha visto la luce a ottobre nell’ambito delle manifestazioni per l’”Estate fiorentina” nelle sale del Museo900 di Firenze. Forse ti chiederai che cosa ha a che fare con la nostra conversazione. Intanto l’idea stessa di conversare che, fin dal titolo, domina lo scritto dell’intellettuale siciliano. Mi piace allora conversare con te. Viaggiare. Ricordare.
Si legge nel testo: «Avevo viaggiato, dalla mia quiete nella non speranza, ed ero in viaggio ancora, e il viaggio era anche conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia, non vita per me, eppur movimento, e mi appoggiai al muricciolo, pensai a mio padre stanco, non Macbeth, non re, coi suoi occhi azzurri… e fui fiero di essere figlio di uomo».
Il lavoro su Vittorini, che nasce da una mia idea e di cui curerò la regia, andrà in scena nella sua veste definitiva il 9 marzo nell’ambito di “Materia Prima”, la rassegna di teatro contemporaneo che io con la mia associazione “Murmuris” curo al Teatro Cantiere Florida, la nostra casa a Firenze. Te ne parlo perché tutto prende le mosse dall’edizione del ’53 pubblicata da Bompiani che vede il testo corredato delle stupende fotografie di Luigi Crocenzi, 169 scatti che furono realizzati durante un invernale viaggio in Sicilia a fianco dello stesso Vittorini. Al di là della vicenda editoriale non troppo felice e nel merito della quale non ha senso entrare qui, le immagini sono servite a me, al mio collaboratore Francesco Migliorini e al video maker Jacopo Jenna per realizzare un video con cui l’attore Roberto Gioffrè ha interagito durante lo studio. Ma di più. Quelle fotografie hanno dato corpo alle mie sensazioni, mi hanno consentito di costruirmi un immaginario concreto, denso, reale, presente di quella Sicilia mai oleografica, mai scontata, che è la meta lirica di un viaggio, un ritorno faticoso e denso di rimandi simbolici non solo autobiografici.

Amo il lavoro di Luigi Crocenzi e in particolare la sua collaborazione con Vittorini, complessa e tormentata, come hai ricordato. Un autore chiave per la fotografia italiana, troppo spesso dimenticato o quantomeno non citato a dovere.

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Ecco quindi subito un primo esempio, forse banale e basilare, di interazione tra teatro e fotografia.
Voglio però dirti che la fotografia per me è quanto di più lontano possa esistere dal teatro. Immagino il tuo sgomento.

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Nessuno sgomento, Laura. Anzi molta curiosità. Questa rubrica va pensata e letta come un terreno su cui non è detto che la fotografia debba germogliare per forza.
Insomma, ti ho interrotto. Teatro e fotografia: per te nulla di più lontano…

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Quasi un ossimoro. Laddove il teatro è movimento, effimera esistenza, accettata dagli attori e dai registi e da tutti coloro che lavorano sul palco come tratto distintivo di questa arte, la fotografia invece è illusione di dominio del tempo, tentativo folle e icarico di fermare il fluire, di appropriarsi dello spazio, del qui e ora, di ricordare, di esserci ancora. So che non è così, so che anche la fotografia ha il suo tempo, ma non possiamo negare che l’attore accetta disperatamente la necessità di morire alla fine di ogni spettacolo, durante ogni spettacolo, mentre il fotografo allo scatto si illude di durare, di fermare qualcosa, di eternare l’istante.

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Vero, ma in parte è vero pure il contrario: per molti fotografi o almeno per loro stessa ammissione, i momenti dell’inquadratura e dello scatto vengono vissuti come un sottrarsi alla propria vita o comunque come attimi di sospensione simili alla morte dell’attore a ogni spettacolo, in favore di un pubblico.                                                                   In relazione a ciò che sostieni, immagino quindi che anche la fotografia di scena rappresenti un nodo non facile da sbrogliare. Una coabitazione forzata.

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La fotografia di scena, che è sicuramente la più immediata e semplice forma di interazione tra le due arti, in realtà è a mio avviso un esempio interessante di come le due forme espressive oltre ad arricchirsi reciprocamente, lottino anche tra di loro. Certo, esistono splendidi fotografi di scena e meravigliose, utilissime, fotografie di scena. Ma il rapporto non è così semplice. È noto a ogni regista il momento in cui il fotografo di scena ti chiede di cambiare le luci, quindi una parte fondamentale della messa in scena, sempre di aumentarle, per poter meglio esercitare la propria opera. È nota d’altro canto a ogni fotografo la necessità di trovare le giuste condizioni – le prove generali?- per infiltrarsi senza disturbare, senza mutare ciò che deve testimoniare. Insomma, la fotografia di scena mi è sempre sembrata una lotta disperata e destinata alla sconfitta tra il fluire e l’arrestare, una specie di risalita della corrente, un tentativo frustrato.

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Consideriamo un altro aspetto: lo spazio scenico che, nella tradizione, è delimitato da quinte, così come delimitata da bordi è la fotografia. In fase di progettazione di uno spettacolo, dalla stesura del testo alla scenografia, ciò che accadrà sul palcoscenico viene pre-visualizzato in forma di immagine?

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Sempre. Solo in questi termini, anzi. Spesso gli spettacoli nascono proprio e solo da una visione, dalla prefigurazione di un’immagine. Ogni regista, ogni autore procede in modo estremamente personale e differente, ma per me ciascun spettacolo è nato da un’immagine molto concreta e credo, in tal senso, di non essere una stranezza. Penso, cioè, che sia molto comune per un regista avere subito la chiarezza materiale di ciò che vuole dire. Il teatro è un’arte molto concreta, non si può alimentare senza visioni precise. Un attore non chiede «come devo dire questo? Cosa devo provare?», ma chiederà sempre «dove devo essere? Verso dove vado?». Cioè vorrà avere sempre chiara la sua collocazione fisica in uno spazio, vorrà quindi avere precise coordinate di concretezza, vorrà avere quindi davanti agli occhi l’immagine del regista.
Spesso infatti, direi sempre, si ricorre a bozzetti, più o meno elaborati e raffinati, utili a comunicare la propria immagine mentale. I registi hanno blocchi, quadernoni, che mostrano agli attori non subito fiduciosi, i quali iniziano a comprendere solo quando hanno chiari spazi, colori, posizioni, oggetti, la scena. Anche perché la memoria emotiva dell’attore è una memoria molto concreta, il corpo ricorda, meglio della mente spesso. Più precisa è l’immagine, più precisa sarà la scena, più semplice ed efficace sarà il lavoro dell’attore. Per questo non è facile adattarsi a spazi nuovi. Quest’anno, come attrice, ho avuto la fortuna di girare abbastanza con uno spettacolo che mi ha reso molto felice, Il migliore dei mondi possibili una riscrittura di Magdalena Barile dal Candido di Voltaire. In scena un delizioso giardinetto artificiale ospita quattro giardiniere, schiave volontarie della misteriosa Madame. Tutto molto piccolo, movimenti continui e minimi. Quasi un carillon. Spostandoci da Firenze, dove lo spettacolo è nato, a Verbania, Pescara, Milano, Parigi e altri luoghi, è stato bellissimo ma molto faticoso adattare il tutto a spazi molto diversi che quasi sempre non potevamo praticare molto prima di andare in scena. Questo per dirti quanto “l’immagine” sia fondamentale.
Per quanto mi riguarda, quando mi interessa un testo, un volto, un suono subito questo si traduce in un’immagine, anzi solo ciò che sa diventare immagine è per me la strada giusta da seguire nel processo creativo. Ma è molto difficile stabilire quale sia il percorso che seguono i registi, così come ormai è impossibile rintracciare la specificità del linguaggio teatrale, tanto che spesso lo spettatore si trova davanti alla fatidica domanda «questo è teatro?».
Ecco credo che questo accada solo al teatro e alla danza. Non c’è di fatto più alcun elemento che definisca il linguaggio teatrale in modo esclusivo. Non vi è lo spazio (teatro è ovunque, strade, piazze, fabbriche, musei…), non vi è l’uso della parola e meno che mai di un testo, non vi è il personaggio, né la vicenda… Insomma mi chiedi cosa sia per me la fotografia, ma, come vedi, difficile definire cosa sia il teatro.

Sulle definizioni con me sfondi una porta aperta, anzi, visto che siamo in un giardino immaginario, tagli un ramo secco. Non le vado cercando e non approvo né categorie o generi. Diversamente “Innesti” non avrebbe potuto prendere vita.
Direi quindi che possiamo tranquillamente proseguire.                                                               Ti sottopongo perciò una nuova considerazione: spesso i fotografi dimenticano di avere un corpo, che permette loro di muoversi nello spazio alla ricerca, per esempio, di punti di vista differenti. Io sostengo che come nel teatro corpo e voce sono in stretta correlazione, così anche nella fotografia corpo e sguardo debbano essere l’uno il prolungamento dell’altro. Mi piacerebbe capire se anche tu sei dello stesso avviso e cosa il teatro potrebbe insegnare, sotto questo aspetto, a chi pratica la fotografia.

Mi pare di leggere nelle tue parole la necessità di comprendere quanto il corpo del fotografo contamini il risultato, quanto da esso dipenda. Quanto l’azione legata all’esercizio tecnico della propria opera sia già opera essa stessa. Mi vengono in mente due aspetti. Uno legato all’opera fondamentale che il grande regista polacco Jerzy Grotowski ha mutuato dall’ultimo Stanislavski e ha poi codificato nella teoria delle azioni fisiche. Teoria che ha completamente rivoluzionato il teatro, fondandone appunto il linguaggio contemporaneo. In sintesi, l’attore non può e non deve tentare di ritrovare una verità psicologica per poter restituire l’autenticità di interpretazione, ma solo passando attraverso la rievocazione fisica delle sensazioni può ritrovare quell’immediata, e quindi più vera, verità emotiva. Il corpo teme, sente, esulta, con molta più immediatezza della nostra mente, quindi con maggiore autenticità.
Un corpo, come quello del fotografo in azione, che respira, che si concentra, che direziona attenzione e sguardo verso l’immagine che segue, inventa e intravede, non può non contaminare l’immagine stessa. È un corpo che danza, che rallenta, che determina un ritmo, che disegna spazi, un corpo vero, perché “distratto”, quindi libero, un corpo che non rappresenta, ma che presenta sé stesso, nel proprio semplice stare, coinvolto in un’azione, in una ricerca. Ricerca di luce.
Recentemente “Murmuris” ha tutorato, nell’ambito del progetto di residenza che sta portando avanti a Firenze, il giovane gruppo MUD composto da quattro danzatrici. Il loro lavoro, frutto appunto della residenza negli spazi del Teatro Cantiere Florida, ha debuttato a “Zoom Festival” con il titolo di Small talk. Tra le idee che le giovani artiste hanno avuto c’è stata anche quella di provare a ricostruire la semantica di un corpo con smartphone. Hanno quindi, eliminando naturalmente l’oggetto tecnologico, ricostruito i movimenti che inconsapevolmente il nostro corpo compie mentre cerca campo, controlla la suoneria, legge un messaggio, si sposta nello spazio guardando un video ecc. Il risultato è stato sorprendente. Una coreografia inconsueta. Te l’ho raccontato perché vorrei divertirmi a immaginare lo stesso procedimento per i fotografi. Un coreografo trarrebbe forse una sequenza di movimenti molto interessanti togliendo al “corpo fotografante” il suo strumento e provando a ricostruire azioni che probabilmente si rivelerebbero estremamente intriganti una volta svincolate dalla loro destinazione concreta.

Un po’ ciò che propone Tina Merandon nei suoi laboratori destinati ai fotografi…

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Il teatro potrebbe insegnare solo una maggiore consapevolezza. Assumere questo aspetto potrebbe essere determinante per il fotografo. Sapere di avere un corpo e usarne respiri, impulsi, direzioni, potrebbe fortemente mutare la qualità di ciò che si fa. E vale per qualsiasi forma espressiva. Tranne attori e, ovviamente danzatori, le altre arti sembrano ignorare la fisicità dell’artista, poiché la cultura occidentale ha segnato un confine pernicioso tra corpo e anima/mente, che ha reso fortemente disorganico il rapporto che ogni artista e intellettuale ha con il proprio corpo. Il fotografo è innanzitutto un corpo che cerca, uno sguardo rabdomante. Questo per parlare di verità.

Parliamo invece di finzione, termine che fa tremare i puristi e che invece mi affascina molto…

Il tema della finzione è ovviamente cruciale per il teatro. In teatro non si fa che fingere. Per questo è tutto assolutamente vero! È un paradosso. Il paradosso dell’attore non a caso è il titolo di uno dei saggi più importanti che consiglierei. Diderot nel breve testo spazza il campo dagli equivoci legati alla supposta necessità dell’attore di “sentire” veramente tutte le emozioni che vuole rappresentare. E anzi, di più. Non solo per il filosofo francese l’attore non può veramente sentire, ma non deve! Il sentire vibrando e patendo sarebbe solo deleterio oltre che inutile. Più un attore è freddo e razionale e meglio riuscirà a dominare il testo attraverso la tecnica e ad essere allora veramente credibile. Solo così lo spettatore potrà davvero emozionarsi e il teatro, secondo Diderot, avrà assolto la sua finalità. Non l’attore quindi deve piangere, amare, gioire, tremare. Ma lo spettatore. Divertenti gli aneddoti dei grandi attori che, mentre sembra dalla platea che stiano soffrendo in tragedia, in realtà si sussurrano, di nascosto, il nome del ristorante in cui andranno a mangiare una volta chiuso il sipario. Ma si sa, Diderot voleva innanzitutto affermare illuministicamente il primato della ragione sul sentimento.
Brecht invece negli Scritti teatrali, volume che consiglierei a chiunque, ritorna sul problema verità/finzione nel teatro, e lo fa, a mio avviso, nel modo definitivo. Lo spettatore non deve credere che sia vero ciò che accade sulla scena, deve semmai credere che sia vero ciò che accade nel mondo a cui il teatro si ispira. La scena infatti non è che un riflesso della realtà e la deve riflettere per denunciare ingiustizie e violenze affinché il pubblico sappia e agisca. Quindi non lacrime e patimenti poi dimenticati nella catarsi dell’ultimo applauso una volta purificati dalle passioni che gli attori avranno in noi scatenato, ma un buono spettacolo dovrebbe generare riflessione, non immedesimazione. Per ottenere questo, per impedire appunto che il pubblico aderisca emotivamente a ciò che vede sul palco sgravandosene all’uscita dalla sala, Brecht inseriva atti di “straniamento” cioè gesti, azioni, canzoni, frasi, del tutto incoerenti con la messa in scena per svegliare il pubblico ed evitare l’adesione emotiva, favorendo invece una presa di coscienza razionale, che dovrebbe portare a un’azione.
Claudio Morganti, autore, attore, regista genovese che ha cambiato la storia del teatro italiano grazie al suo lavoro negli anni ’70 e ’80 con Alfonso Santagata, in un memorabile “manifesto” traccia la differenza tra Teatro e Spettacolo, a favore del primo. Tra le molte affermazioni interessanti ve n’è una opportuna per noi qui: «lo spettacolo finisce quando si esce dalla sala, il Teatro inizia quando si esce dalla sala». Solo a sipario chiuso inizia il vero lavoro del teatro, che è quello di cambiare il mondo in cui viviamo attraverso le persone. Come diceva Brecht. Il Teatro non può essere consolatorio, non può essere intrattenimento. Quindi il problema di accettare il piano della finzione per un attore quasi non si pone. Davanti a un’altra opera d’arte non si chiederà mai se è simulazione. Lo è, sempre. E menomale. Inoltre c’è un altro aspetto. Più banale, utile nella didattica del teatro. L’illusione della finzione consente a un attore di lasciarsi andare disvelando se stesso, mostrando le più profonde ferite, gli abissi personali, le fragilità, le debolezze, le manie, le povertà, i propri vuoti, le propri ingenuità. Senza difesa. Non ce n’è bisogno. Tanto si sta solo facendo finta, vero?
Comunque la questione del vero/falso non si pone. Non si deve porre. Mi chiedi se l’attore sia disposto a credere nella finzione. Non posso che rilanciare chiedendo cosa si intenda per finzione. Artificio? Ricostruzione della realtà? Svelamento dell’illusione? Portare alla luce i meccanismi simbolici che la realtà cela?
Ricordo che due anni fa mentre stavamo preparando Giusto la fine del mondo di Jean-Luc Lagarce (un bellissimo testo, oggi noto anche grazie al recente film di Xavier Dolan) ci siamo molto interrogati sull’immagine di famiglia. Proprio nel senso di composizione, di inquadratura. Dai ritratti di famiglia rinascimentali in poi. Fino ad approdare poi a Hopper e ai suoi quadri di donne, alle sue soglie. La soglia ci interessava, la luce che c’è nel mezzo, nel non essere né di qui né di lì.

Un lavoro di ricerca che è debitore alla storia delle immagini, indubbiamente. La fotografia applicata ai gruppi familiari, poi, abbraccia applicazioni che si spingono fino alla fototerapia. Mi interessa approfondire l’argomento.

Allora agganciamo la famiglia al concetto di vero: proprio in quei giorni a Palazzo Strozzi qui a Firenze veniva ospitata una mostra per me molto bella dal titolo Questioni di famiglia. Vivere e rappresentare la famiglia oggi. In particolar modo fummo attratti (parlo al plurale perché penso a noi attori, eravamo cinque in scena, e alla regista, allo scenografo, a chi ha pensato per noi il disegno luci…) dal lavoro di due artisti Trish Morrissey e Hans Op de Beek. Entrambi esponevano ritratti di famiglia particolarmente intriganti. La prima immagini solari, sempre in spiaggia, di famiglie allegre, in vacanza. Belle, vere. il secondo invece immagini più spettrali di adulti, anziani con palloncini bianchi intenti, forse, a festeggiare. Ma il vero interesse di questi due lavori stava nel fatto che le immagini della Morrissey – lo si capiva solo in un momento successivo –  ritraevano persone che famiglia non erano, quindi estranei messi insieme a caso. L’effetto straniante era straordinario e ti obbligava riflettere sull’autenticità del concetto di famiglia e sulla sua reale naturalezza. Per Op de Beek invece le immagini composte si alternavano a quelle in cui comparivano anche le truccatrici, costumiste che allestivano il grottesco set da farsa felliniana. E anche qui l’irrompere della finzione non diventava incidente o diversivo ma, al contrario, vero senso dell’opera, direzione di ricerca e chiave della comprensione.

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Chiarissimo. Cambiamo registro e chiudiamo con un ultimo ambito di riflessione: Jean Baudrillard, nel 1987 in L’altro visto da sé scriveva: «L’oscenità comincia quando non c’è più spettacolo, non c’è più scena, non c’è più teatro, quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione. Non siamo più nel dramma dell’alienazione, siamo nell’estasi della comunicazione. Osceno è tutto ciò che mette fine a qualsiasi sguardo, a qualsiasi immagine, a qualsiasi rappresentazione».
Penso che la citazione del sociologo francese, pur se datata, sia ora spinta alle sue estreme conseguenze. Esiste ed è individuabile, secondo te, un punto di non ritorno, dal punto di vista etico, oltre il quale teatro e fotografia non dovrebbero spingersi, preservandosi dall’oscenità?

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Come porre il limite dell’oscenità? Voglio dire dove si può trovare il confine tra ciò che è giusto mettere in scena e ciò che diventa offensivo, per chi? Quando? Senza pensarci troppo ti direi che non c’è nulla di osceno e che tutto è lecito in scena e in fotografia. Ma lo dico solo perché mi risulta davvero impossibile capire cosa invece potrebbe essere da censurare. Ci sono stati spettacoli con atti sessuali sul palcoscenico, spettacoli con cadaveri, con animali morti o morenti o uccisi. Ricordo il famoso spettacolo di Rodrigo Garcia che consisteva nell’agonia di un astice amplificata che moriva nella pentola bollente. O –  dello stesso regista – il pesciolino frullato vivo.

Intanto mi fai tornare alla mente quando, insieme, assistemmo a XXX, il tanto discusso spettacolo dedicato a De Sade, portato in scena dalla “Fura dels Baus”. La questione è davvero spinosissima, soprattutto in un contesto sociale/globale che si è fatto pericolosamente e ciecamente censorio.
Devo però ammettere che quando si parla di animali (conoscendo diversi esempi che coinvolgono il teatro così come le performance artistico-contemporanee) la mia visione non antropocentrica d’istinto stigmatizza il loro coinvolgimento coatto nelle opere umane. Ma comprendo bene il tuo ragionamento e intuisco ove intende approdare.

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Prendiamo allora a campione i tanti spettacoli sconvolgenti di Romeo Castellucci regista della “Raffaello Sanzio Societas”, non ultimo quello intitolato Sul concetto di volto nel figlio di Dio durante il quale un persistente odore di feci ammorbava la platea. In scena un’enorme riproduzione del Cristo di Antonello da Messina. Andato in scena Parigi è stato bloccato da una compagine di cattolici integralisti che non volevano vedere accostato il volto di Cristo a questa materia così bassa. Io penso che veramente sia impossibile tracciare un confine e capire dove fermarsi. O meglio un limite c’è, ed è di senso. Qual è il senso di queste operazioni? Cosa voleva dire Castellucci? L’ha detto? Sì? Bene allora poteva farlo. Se nelle maglie di questa definizione vaga, imprecisa, soggettiva, inutile in definitiva, passeranno anche cialtroni in cerca di notorietà, beh pazienza. Meglio regalare qualche attimo di notorietà a una nullità che perdere per la pruderie imbarazzante di alcuni, occasioni di confrontarci con opere d’arte sconvolgenti.

Grazie Laura: una chiusura che non fa sconti e non schiva il confronto. Proprio come mi auguravo. Lo spazio di un blog non è smisurato, ma mi pare che questo primo intervento abbia smosso il terreno e possa far crescere qualche idea.

Lo spero. Penso che questa conversazione sarebbe potuta durare molto di più perché molto ancora ci sarebbe da dire. Ma sono molto felice però di essere stata la prima di quella che ti/vi/ci auguro sia una lunga serie di vitalissimi innesti!

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2 pensieri su “Innesti/Teatro: intervento di Laura Croce

  1. Sono moltissimi gli argomenti che vengono tirati in ballo con questa intervista, e secondo me sarebbe un errore fermarsi alla lettura senza provare a parlarne e sentire qualche opinione. A me piace rileggere più volte per afferrare più concetti possibili, ma posso dirti che alla prima lettura un passaggio che mi ha colpito molto è questo: “Un corpo, come quello del fotografo in azione, che respira, che si concentra, che direziona attenzione e sguardo verso l’immagine che segue, inventa e intravede, non può non contaminare l’immagine stessa. È un corpo che danza, che rallenta, che determina un ritmo, che disegna spazi, un corpo vero, perché “distratto”, quindi libero, un corpo che non rappresenta, ma che presenta sé stesso, nel proprio semplice stare, coinvolto in un’azione, in una ricerca. Ricerca di luce”. Direi che descrive l’atto di fotografare in maniera incredibile.

    1. Vero, Roberto!
      Laura ha la capacità e la sensibilità per cogliere le cose nella loro essenza.
      Il confronto porta sempre linfa nuova e ci fa vedere sotto un’altra luce ciò che siamo o abbiamo sotto gli occhi.

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