Nei laboratori che da anni tengo in alcune città italiane, inserisco un’ampia sezione teorica dedicata alla storia della fotografia.
Per mia formazione e per ragioni che cercherò di riassumere in questo articolo, l’approfondimento storico-culturale è una parte irrinunciabile dei miei percorsi didattici.
Voglio subito sgombrare il campo da ogni possibile insinuazione o fraintendimento. La mia scelta non è dettata dall’amore per quel nozionismo che trova compimento e compiacimento in una sterile e irritante esibizione di sapere.
No, i motivi stanno altrove.
La storia della fotografia, inserita dialetticamente nella storia delle immagini e contaminata da altre discipline, rappresenta una piattaforma di riflessione sul particolare momento in cui ci si ritrova a fare o trattare la fotografia.
La storia ci racconta il passato per inchiodarci al presente.
E lo fa ribadendo, per qualsiasi periodo preso in esame, la totale immersione degli autori nel loro tempo, tempo che, in grazia o a causa di congiunture irripetibili, ha determinato urgenze, connessioni, mentalità, gusti. È quell’essere dentro ad aver fatto e a fare la differenza, a garantire credibilità e autenticità e a scongiurare le “maniere”.
Guardare a ciò che è stato prodotto ci induce a prendere le distanze piuttosto che ad assorbire passivamente dei modelli. Certo la conoscenza ci permette di attingere a uno sterminato repertorio iconografico e ci dissuade dal rincorrere la chimera dell’originalità a tutti i costi, ma solo un senso critico modulato sul nostro presente può aiutarci a passare dall’imitazione alla citazione.
Perché se è vero – e secondo me lo è – che la fotografia, in qualsivoglia sua applicazione, ha valore unicamente se inserita in un sistema di relazioni e ricadute sociali, allora chi la pratica deve essere in grado di sentirsi parte integrante o disintegrante dell’ambiente e delle circostanze in cui vive e produce.
Ciò non significa togliere peso o fascino alla condizione solipsistica necessaria a ogni autore. Anzi, ciclicamente, come scriveva Ugo Mulas nel 1973 con una lucidità e un’intensità rare, è bene allontanarsi dal mondo per «capire cos’è questo sentirsi soli di fronte al fare, che cos’è non cercare più dei puntelli, non cercare più negli altri la verità, ma trovarla soltanto in se stessi […]».1
L’autore coincide con la sua opera, la inscrive nella sua biografia irriproducibile. Fotografa per se stesso, è legittimo e risaputo. Dopodiché, egli non si limita a parlarsi allo specchio. Si esprime – dal latino exprimere, premere fuori – spreme la propria sostanza in quel fuori che è la contemporaneità, alla ricerca di interlocutori.
Ecco, la storia insegna a sapersi collocare. Mi ripeto: chi ci ha preceduto l’ha fatto. Era immerso nel proprio tempo non tanto perché, banalmente, ne era coevo, ma perché lo determinava, a volte perfino anticipandolo.
Diffido di chi di chi si rilascia l’”auto-patente” di incompreso, sottraendosi a ogni confronto oppure di chi si crogiola nella confort zone di partiti presi anacronistici e ristretti, responsabili, secondo Rosalind Krauss, dell’impaludamento della fotografia.2
Che si decida di imboccare strade affollate o – al contrario – di aprirsi un sentiero, la mappa su cui tracciare il proprio percorso non può che essere una mappa aggiornata in grado di fornire anche le nostre coordinate. Una cartina su cui apporre un segno che indichi: «io sono qui».
Infine, è proprio volgendo lo sguardo alla storia, che si finisce – fatalmente – per smitizzarla, per non assumerla come una disciplina rigida e accademica.
Lo studio della storia non genera incanto, semmai apre al disincanto.
Non c’è un’unica storia della fotografia, vi sono diverse storie, anch’esse figlie di culture che si portano sulle spalle il peso di epurazioni e di celebrazioni indegne.
Del resto, come scrive Georges Didi-Hubermann in Scorze, «la cultura non è la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto “barbare” o “primitive” possano essere». 3
Dove siamo, dunque? Come ci siamo arrivati? Ma, soprattutto, cosa intendiamo fare?
Buon 2018!
1 Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino, 1973
2 Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996
3 Geroges Didi-Hubermann, Scorze, Edizioni Nottetempo, Roma, 2014
Ottime riflessioni Laura.
Simona Guerra
Ti ringrazio, Simona.
L’articolo è molto ben scritto, in forma chiara e inequivocabile; ma più di ciò ha il pregio di essere ad alto peso specifico, mediante un’essenzialità che esprime\contiene vari punti che fanno chiarezza e pulizia.
Un passaggio tra i vari: “Lo studio della storia non genera incanto, semmai apre al disincanto. “
Grazie Toni,
nello spazio ristretto di un blog si procede per punti ritenuti significativi. Ed è forse un buon esercizio, per chi scrive, tentare una sintetizzazione che non tolga troppo peso ai concetti che si desidera esprimere.
Sono felice che tu abbia apprezzato queste notazioni sulla storia e sulle storie della fotografia.