I filtri di Nerone

© Eugène Atget, "Éclipse", Parigi, 1912
© Eugène Atget, “Éclipse”, Parigi, 1912

Nel 1951, uscì nelle sale cinematografiche Quo vadis, un colossal diretto da Mervyn Leroy e intrepretato da un super cast hollywoodiano, fra cui spiccavano Robert Taylor nel ruolo di Marco “Vinicio”, Deborah Kerr, in quello di “Licia” e – soprattutto – un magistrale quanto ripugnante Peter Ustinov, nei panni di “Nerone”.
Bene, pur non essendo un’appassionata del genere, in Quo vadis c’è un passaggio che amo molto, ovvero il momento in cui Nerone osserva un balletto offerto agli ospiti della Domus Aurea, attraverso una lente dotata di variopinti filtri intercambiabili. Un gesto da vero Re senza distrazioni, per citare un capolavoro  dello scrittore Jean Giono, gesto che racchiude la noia dell’imperatore per la realtà assorbita “in purezza” e che traduce, con una metafora semplice, la sua visionarietà febbrile.
Questo frammento cinematografico mi è recentemente tornato alla mente leggendo una frase di un curioso e valido romanzo di Julian Barnes intitolato Il pappagallo di Flaubert: «Per guardare il sole, usiamo vetri fumé, per guardare il passato, dovremmo ricorrere a vetri colorati».
Il colore, in fotografia, intendo nella fotografia analogica soprattutto, è sempre stato un concetto sfuggente e mobile, più che una componente strutturale o una possibilità: un surrogato poco convincente della nostra visione policroma, che si è mostrato come tale già a partire dalla messa a punto dei primi procedimenti, quali la tricromia (1862), la fotocromia (1876), l’autocromia (1904), la cabrotricomia (1905) e l’utocolor (1906), fino ad arrivare ai prodotti lanciati su scala industriale far cui i negativi Agfacolor del 1939 o i Kodachrome Print del 1941.
Anche quando ci si era persuasi di aver stabilizzato in qualche maniera la spinosa questione, approdando a pellicole più affidabili, fu sufficiente, per estrapolare un esempio immediato al dibattito critico, una sola sequenza di John Hilliard del 1972 a scardinare ogni presunzione di verosimiglianza con il mondo naturale.

© John Hilliard, "7 rappresentations – Colours Negative Film Boxes", 1972
© John Hilliard, “7 rappresentations – Colours Negative Film Boxes”, 1972

Hilliard a parte, il resto, assai incurante dalle velleità umane, lo ha fatto e farà il tempo, o – per rimanere nel mitologico e nel paganesimo caro agli antichi – Kronos, divinità che non perdona certo i vezzi di onnipotenza di noi poveri mortali. E così, pure il colore in fotografia si è rivelato (come direbbero i francesi con un’espressione che mi diverte molto) une grande blague des dieux, un grande scherzo degli dei.
Infondo, basta sfogliare gli album di famiglia per appurare quante dominanti artificiali assumano le vecchie stampe.
A questo punto, vi pongo una domanda: è così importante che il nostro percorso fotografico ci restituisca colori attendibili? Non è la nostra stessa memoria un filtro deformante che incessantemente modifica e impasta le tinte del ricordo? Non sarebbe meglio concentrarci sul significato che ha per noi un colore, piuttosto che sulla sua attendibilità, considerando che non potremmo comunque sfuggire alla gamma di alterazioni a cui ho accennato?
È il caso o no, quindi, di indossare gli occhiali fumé per guardare e riprodurre il sole? Forse, meglio farsi accecare da un’esplosione bianca di luce, poiché la luce ha un senso e il bianco pure. Meglio riprendere convulsamente le fiamme livide di Roma che brucia, anziché guardarla incenerire da lontano, con la pretesa di restituirla alla storia cantandola stonati e con finto struggimento.
Inquadriamo i nostri giorni con i nostri umanissimi occhi e con le nostre limitatissime possibilità. Fotografiamo pure, consapevoli del fatto che la fotografia è un’illusione: appena dopo lo scatto apparterrà al passato. E, fatalmente, si colorerà da sé.

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6 pensieri su “I filtri di Nerone

  1. La querelle inizia già nel momento in cui si coglie la fotografia.
    Pensiamo alle tentazioni tipiche odierne, per lo più del mondo fotoamatoriale:
    quella di oggettivare (la neve DEVE essere bianca. Se la fotografia ce la restituisce con delle dominanti, va corretta. E’ pazzesco, come se la neve non riflettesse i colori di ciò che ha intorno, a cominciare dal cielo…);
    quella di enfatizzare (filtri, filtrini e lastre digradanti – stavo per scrivere degradanti, e forse era più giusto – perché il cielo in alto deve essere più scuro e più blu, perché un cielo slavato non ha senso… ahimè);
    quella di… anticare (quante valide foto vediamo pateticamente virate seppia o azzurrino… e con un po’ di graffi e sporco, giusto per gradire. Peccato).
    Nella stragrande maggioranza dei casi è così, eccezion fatta per quella piccola percentuale dove l’escamotage ha un suo senso.
    Passando al tuo quesito specifico, ossia cosa fare per le foto del passato, credo non si possa dare una risposta generica: dipende caso per caso.
    Una foto ricordo dei parenti che pian piano nell’album ha assunto una dominante può anche andar bene così. Come pure una foto strettamente documentaria, dove l’ingiallimento ne certifica quasi la datazione. Però una foto d’atmosfera, dove il colore aveva un senso prioritario, se riportata alla sua purezza (ammesso che sia possibile) va altrettanto bene.
    Con tutte le varianti del caso, s’intende.
    Grazie dell’interessante articolo, ciao!

  2. Penso che il successo incondizionato dei filtri, sia delle app più diffuse, sia quelli materiali in vetro, testimonino che anche per i ‘fotografi’ meno consapevoli la realtà si possa solo rappresentare, non riprodurre. Questo procedimento passa spesso per stereotipi, regole e regolette, che paradossalmente testimoniano non la volontà di rendere il reale, quanto quella di mostrarne una dimensione di presupposta e impossibile perfezione; non si può dubitare del carattere costituzionalmente ‘mistificatorio’ della fotografia, già a partire dalla semplice scelta di includere o no porzioni di realtà nei confini dei suoi bordi. Da qui il passo al colore come elemento semantico di un’immagine è breve

  3. Si potrebbe azzardare che ogni fotografo, con la sua attrezzatura dell’immagine, implicitamente pretenda di rappresentare la giusta interpretazione della realtà.
    A questa considerevole immanenza, soccorre la precipua imperfezione della Fotografia…

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