Parlo con lei

© Ada Sola, "Autoritratto", sd
© Ada Sola, “Autoritratto”, sd

Giorni fa mi sono ritrovata a confrontarmi sulla fotografia con Ada Sola.
Capita sovente, guardandomi “intorno”, che io mi rivolga a lei per interrogarmi sul lavoro mio e degli altri, siano essi fotografi, curatori, galleristi o teorici della fotografia nel senso più ampio del termine.
Avevo voglia di stare in sua compagnia e così sono partita da lontano. Dall’inizio.
Il tuo, Ada…

Ho iniziato a fotografare verso la fine degli anni sessanta da quando, in occasione della maturità, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Nel primo periodo mi sono appassionata al nuovo strumento in modo ingenuo, direi ora, tuttavia necessario: non ero certo consapevole del mezzo né mi sollecitava utilizzarlo in forma creativa. Raccoglievo immagini per illustrare i viaggi delle vacanze o alcuni momenti della mia vita.
Dal 1980 la fotografia è divenuta un aspetto, in alcuni momenti prevalente in altri marginale, del mio lavoro.

Già, il 1980, anno in cui, a Biella, la tua città, inaugurasti lo “Studio Galleria Figura”. Esponesti, per citare alcuni nomi, i lavori di Luigi Ghirri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Roberto Salbitani, Mario Cresci, Franco Vimercati, Paul Den Hollander. Fino al 1986. Hai tracciato un segno forte nella fotografia italiana: le tue intenzioni erano precise. Erano tese all’esercizio intellettuale, non certo commerciale.
Lo si evince chiaramente da una lettera che scrivesti a Mario Cresci, poco tempo prima di aprire il tuo spazio.

Era certo che non volessi diventare un supermercato della fotografia. Volevo conoscere di persona gli autori con cui trattavo e conoscere con una certa precisione e comunque di prima mano il perché del loro lavoro e i significati della loro ricerca.
Ti assicuro che la molla che mi ha spinto su questa strada è stata la curiosità di sapere, di conoscere le persone, di sapere cosa si stava muovendo, di collaborare col mio lavoro alla costruzione di riferimenti culturali non caduchi e di vasto orizzonte.

Che suono strano hanno le tue parole, pronunciate di questi tempi, tempi in cui gli orizzonti spesso si limitano al bordo dello specchio in cui ci si riflette. Ma passiamo ad altro…
Terminata l’esperienza di “Figura” la fotografia è diventata uno strumento di indagine personale. Una sorta di grimaldello con cui ti sei aperta all’osservazione di te stessa e del mondo.

Non so se le mie immagini appaiono contemplative, ad ogni modo vorrebbero esserlo. La fotografia continua a presentare problemi irrisolti, non offre certezze.
Però quello che c’era nell’immagine di proiettivo lo vedevo dopo, è così che la fotografia mi ha insegnato a scoprirmi, a lasciarmi andare…

Certo non ti sei fatta sconti, né ti sei mai fermata sulla soglia dell’esteticità fine a se stessa. Era un altro l’ideale, per così dire, armonico che andavi cercando.

Ho perso il contatto col “sentito-vero” ogni volta che ho cercato di fare una bella fotografia…
Mi sono accorta che le mie immagini sfiorano margini urbani, di natura, incontri possibili mai accaduti. La porzione di mondo che ho fotografato è stata, a volte casuale, un sottile richiamo di fascinazione con-temporaneo solo al momento dello scatto.
Ho cercato un equilibrio nelle forme naturali e anche in quelle che l’uomo impone alla natura…

© Ada Sola, [Alberi] rev696911, sd
© Ada Sola, [Alberi] rev696911, sd
Oltre a praticarla hai sovente usato la fotografia, servendoti di materiali iconografici d’archivio come espedienti per sondare il concetto di memoria o approdare ad altri linguaggi.
Prendiamo tre progetti: Album di famiglia e Narrative Photography, entrambi del 1998 e Memory-Box, del 2000. 
Consideriamo i primi due:

Per “Album di famiglia” ho voluto rifotografare “foto ricordo” o di ricorrenze (battesimi, matrimoni, riti famigliari) da album privati, attualizzandoli. Accostare foto familiari a ricostruzioni visibilmente – ugualmente – false, in posa, di pubblicità, articoli di giornali, riviste illustrate…
“Narrative Photography”, invece, mi ha portato a costruire brevi racconti sulla base delle fotografie. Verificare se c’era almeno una fotografia da una sequenza o da un lavoro che rappresentasse lo stato d’animo o lo stato della conoscenza o dell’esperienza in quella occasione.  Doveva esserci qualcosa da “tenere in mano”, poter stringere, fermare e rivedere a distanza, come un artigianale libricino. La “storia” che non viene fissata nei libri è racconto orale. La memoria storica è negli scritti o negli oggetti materiali.

Memory-Box mi è particolarmente caro. Mi regalasti una delle scatole di cui era costituito. Mi dicesti: «Scegline una e portala con te». Presi una foto dove ti si scorge accanto a Stella, il tuo cane lupo.

“Memory-Box” è una installazione. Sono partita dal presupposto che la fotografia confluisca, come immagine, nelle scatole che compongono i nostri ricordi… Dopodiché ho predisposto un mucchio di qualche centinaio di piccole scatole di cartone nero: alcune aperte, altre richiuse contenenti fotografie da me selezionate. Mi sono detta: «Sarà il pubblico che – spero – avrà la curiosità di aprirle per entrare in contatto coi miei personali ricordi, che magari susciteranno suoi personali ricordi…».
 È chiaro: molte delle fotografie contenute nelle scatole nere mi riguardano, addirittura mi rappresentano in momenti della mia vita, ma è proprio il fatto che suscitino un riconoscimento, una identificazione o anche un rifiuto che fa sì che in questa operazione ci possano essere  due identità da parzialmente ritrovare: la mia e quella di chi mi osserva e si osserva attraverso la mia proposta.

© Ada Sola, "Memory-Box", 2000
© Ada Sola, “Memory-Box”, 2000

Si è fatto tardi, Ada, non possiamo proseguire, lo sai. Ma c’è spazio ancora per una domanda. La stessa che diede l’input a “Figura” e – presumo – a tutta la tua ricerca individuale: «Perché privilegiare per l’espressione artistica il medium fotografico?»

Perché ormai all’interno del mezzo nessuno può più credere che esso consenta la fissazione in immagine di una realtà.

Chi ha avuto il privilegio di conoscere Ada Sola, sa che questa è un’”intervista impossibile”.
Ada se n’è andata, a 57 anni, la notte dell’8 dicembre 2003.
Le parti in corsivo sono state estrapolate (e riportate fedelmente) da appunti di Ada Sola pubblicati sul sito adasola.altervista.org . Le uniche modifiche che ho apportato sono piccoli accordi o adattamenti dei tempi verbali a questo testo.
Ringrazio l’amico (mio, ma soprattutto di Ada) Pierangelo Cavanna per aver sopportato tutti i momenti di crisi che mi hanno accompagnato durante la stesura dell’articolo.
Ho avuto la grande fortuna di frequentare Ada dal 1995 al 2003 e mi scuso con lei se non ho saputo fare di più e di meglio per ricordarla.
So che sarà clemente. Amava a tal punto la fotografia da saperla perdonare.
Io, invece, non perdono la fotografia di averla dimenticata.

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6 pensieri su “Parlo con lei

  1. Ho cercato un equilibrio nelle forme naturali e anche in quelle che l’uomo impone alla natura…

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