Caro amico (fotografo, autore, artista, scegli tu),
se sei un mio amico – o amica, s’intende – e vuoi un mio testo a corredo delle tue immagini, sappi che io scriverò di conoscerti.
Non giocherò il ruolo dell’esperta distaccata, che finge di trovarsi dinnanzi a un lavoro capitatole sotto gli occhi per caso. Forse, a trent’anni, sentirsi sopra le parti può perfino lusingare. Ma quando si raggiunge un’auspicata maturità, non più.
Ti chiamerò per nome e cognome, forse in alcuni casi ometterò il cognome e racconterò di noi. Delle nostre conversazioni sulla fotografia, di alcuni lati del tuo carattere che riconosco nelle tue immagini, forse anche degli aspetti intorno a cui le nostre concezioni divergono.
Non sacrificherò professionalità e competenza a un tono confidenziale, sia chiaro, non oltrepasserò mai il limite della discrezione, sia altrettanto chiaro, ma neppure sacrificherò un rapporto personale a qualche migliaio di battute.
Perché, sai, amico/a, è da troppo tempo che leggo testi che mi lasciano perplessa, testi ove la conoscenza fra i soggetti, anche se conclamata, viene regolarmente omessa. E mi chiedo che senso abbia, a chi la si voglia “dare a bere”. Non vale forse di più lo scritto di chi sa chi siamo, di chi ci stima e ci accetta per ciò che siamo? Di chi conferma che una fotografia coincide davvero con chi l’ha prodotta?
Cosa nasconde il bisogno di dichiararsi estranei? Qual è il valore aggiunto di una menzogna?
Ecco, ti ho avvisato, lo sai e puoi scegliere. Io questo posso darti. Giocavo alle “signore” quando avevo otto anni, dando del “lei” all’amichetta del cuore. Ora cerco di svolgere onestamente un mestiere che comporta lo sforzo di capire chi mi sta di fronte, di andare a fondo prima di esprimermi.
Non vale per tutti, certo, alcuni autori sono morti e non possono parlare, altri non vogliono aggiungere nulla a ciò che scattano ed esigono legittimamente un’analisi asettica, escludendo ogni contatto umano. Il mio lavoro contempla anche loro.
Ma se sei mio amico/a, cambia tutto. E io lo scrivo.