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Il gessificatore

Charles Aubry, "Composizione con foglie di tabacco ed erba", 1864
Charles Aubry, “Composizione con foglie di tabacco ed erba”, 1864

Vi sono figure di fotografi, all’interno della Storia della Fotografia, che passano quasi inosservate, malgrado la loro straordinarietà. Uomini capaci di grandi fallimenti individuali, che, inconsapevolmente, consegnano materiali di notevole interesse a chi verrà dopo di loro.
Il francese Charles Hippolyte Aubry (1811-1877) è uno di questi e ha tutta la mia simpatia. Un individuo in ritardo sul tempo, innamorato della fotografia senza saperla abbracciare nella maniera giusta, destinato a perdere, a fare sempre la mossa sbagliata.
Aubry era un disegnatore tessile, abile, con un’attività ben avviata: a 53 anni, nel 1864, decise di chiudere l’azienda per costituire, a Parigi, una società di calchi e fotografie di piante e fiori in gesso.
A stregare Charles, come il canto delle sirene, fu indubbiamente l’eco del successo di Adolphe Braun, che un decennio prima, nel 1853, realizzò con fortuna 300 immagini di fiori a servizio dei produttori di stoffe d’arredamento. Braun fu decisamente più oculato del suo esuberante collega nell’uso della fotografia e nella scelta degli amici, spaziando dal paesaggio, alla documentazione, fino al ritratto di corte. Egli fu insomma celebrato quanto una  “star”,  invitato con le sue nature morte all’Exposition Universelle del 1855, accreditato come primo fotografo ufficiale del Louvre, per citare solo due tra i vari traguardi che ne accrebbero la fama.
Charles no. Charles non era un compiacente. A lui non interessavano vedute, opere d’arte e d’ingegno, personaggi illustri. Il suo era un mondo fatto di tappezzerie, poltrone, tende e divani. Così escogitò l’idea di fotografare campioni floreali e piante irrigidite dalla polvere di gesso. Preparò un elegante album per il Principe Imperiale accompagnato da queste brevi righe, non risparmiando neppure una sottile denuncia sulla scarsa sovvenzione degli istituti d’arte: «Principe, per facilitare lo studio della natura, l’ho colta sul fatto in modo da fornire alle maestranze quei modelli che devono far progredire l’arte industriale messa un po’ a repentaglio dalle esigue finanze delle scuole di disegno».
A che serviva, dieci anni dopo i trionfi dell’introdotto Braun, smerciare quel tipo di lavoro come una novità? A che serviva, inoltre, adottare una tecnica tanto complessa, ovvero la gessificazione, per cogliere sul fatto la natura e congelarne le forme? Bastava la fotografia, come avrebbe ribadito Karl Blossfeldt intorno al 1930. Nessun fiore appassisce tra i bordi di un’immagine.
Non ci arrivò il povero Aubry, rapito dalla sua stessa intemperanza, il quale, l’anno seguente, avendo realizzato 200 stampe senza ottenere una sola commissione, fu costretto a serrar bottega dichiarando fallimento.
Le sue opere, oggi, sono conservate nei musei, ma di lui si parla a margine, poche righe sulle prestigiose storie della Fotografia.
Eppure l’affascinante epopea ottocentesca della fotografia, accanto ai voli in mongolfiera di Nadar l’eclettico e alle immersioni di Loius Boutan il palombaro, passa anche attraverso ingenui sognatori destinati all’insuccesso. Si sviluppa come un romanzo di Jules Verne, come un’avventura fantastica, fatta di eroici comprimari e intrepide ma struggenti comparse, come Aubry, senza i quali la trama perderebbe ritmo, emozione e completezza.

L’odore del circo

 

© Enrico Prada. senza titolo, 2015
© Enrico Prada, Senza titolo, 2015

Nella mia cittadina arrivano piccoli circhi, baracconi tanto cari a Federico Fellini, cenciosi, decadenti, con molta polvere e poche stelle.
Normalmente si installano in un piazzale di fronte a casa mia. Se ne sente subito l’odore, inconfondibile e greve.
In quei giorni, m’invade un senso di pena profonda. Così, non riesco neppure ad affacciarmi alla finestra per guardare gli stretti recinti degli animali tristi o gli indiani con le livree rosse e troppo larghe che accolgono gli spettatori, mal celando la loro magrezza dietro ai denti bianchi.
Al piccolo circo, sottraggo pure l’udito e non solo la vista, perché davvero mi commuovono, d’una commozione lacerante, sia le musiche delle finte orchestrine, sia la voce da “Settimana Incom” con cui il presentatore commenta i numeri di trapezisti, clown e scimpanzé ballerini.
Ma resta l’odore: anche quando i carrozzoni se ne vanno. E quell’odore porta lontano il mio naso “urbano”, evocando suggestioni tigrate e misteriose, che sostituiscono la tristezza con un esotismo da romanzo salgariano.
Per me, certa fotografia (certa, non tutta, s’intende), funziona unicamente se reca con sé l’odore del circo, se me lo restituisce.
Funziona se la si deve non tanto osservare o raccontare, ma annusare. Funziona se è indizio minimo di qualcosa che è accaduto, se nega lo sguardo all’azione eclatante per evocarla in maniera differente, avventurandosi su piste poco battute.
È la fotografia del giorno dopo, dell’attimo perduto, di chi arriva in ritardo e perde la coincidenza, ma non per questo arresta il viaggio. È la fotografia di chi ha fiuto nel trattare lo struggimento, il dolore o – sul piano opposto – la leggerezza e la felicità con un istinto che è più dell’animale che dell’uomo/fotografo eccessivamente “alfabetizzato”.  Di chi sa leggere i segni e sa lasciar segni indefiniti di sé.
Di chi, insomma, produce con la fotocamera scatti ferini e – deliberatamente – decide se far perdere o ritrovare le proprie tracce allo spettatore.