Ognuno ha i suoi miti. Pure la Fotografia.
In tanti, per spiegarne le origini e il fascino, ricorrono a Narciso, che annegò specchiandosi in una sorgente, rapito da un delirio erotico di auto-ammirazione.
Altri ancora rivedono nello sguardo fatale di Medusa, in quel rimanere “pietrificati per esser stati visti” (Dubois, 1983), la capacità della fotografia di cristallizzare in un solo istante il flusso temporale, sottraendo metaforicamente il soggetto alla propria vita.
Un ulteriore esempio, forse meno noto, è proposto da Oliver Wendell Holmes (che ho già avuto modo di citare in un precedente articolo) in un saggio pubblicato sull’Atlantic Monthly nel 1861 e intitolato “Dipinti e sculture del sole. Con un viaggio stereoscopico attraverso l’Atlantico”.
Siamo ancora nell’Antica Grecia e la storia è quella del giovane Marsia che osò sfidare Apollo esibendosi con il flauto di Minerva. Un affronto pagato dal poveretto con un terribile supplizio inferto per mano dello stesso Apollo, che lo legò a un albero e lo scorticò vivo. Wendell Holmes, per natura lieve ed entusiasta, fornisce della truce vicenda un’interpretazione inedita ma molto interessante: «(…) il dio del Canto era anche il dio della Luce e, con un atto di riflessione, potremmo comprendere il significato di questo mito apparentemente barbaro. Apollo, compiaciuto del suo giovane rivale, lo fa mettere in posa davanti a un cavalletto (l’albero del racconto) e lo fissa in una fotografia, cioè in un’immagine fatta con il sole. Questa sottile pellicola o pelle di luce ed ombra è stata assurdamente intesa come la pelle del pastore».
Debbo ammettere che mi piace pensare alla fotografia come a una membrana luminescente che ci lasciamo appresso: mi rimanda alla muta di certi animali, mi infonde un senso di rigenerazione.
Va altresì ricordato, su un piano assai più truculento, che lo studio delle immagini offre altri campioni di spellati illustri: l’agiografia cristiana annovera san Bartolomeo che tuttora, nelle statue e nei dipinti che lo rappresentano, va portandosi appresso la sua “cotenna”. Lo stesso Buonarroti, nel Giudizio Universale, “usò” la pelle del santo come supporto per incastonarvi un famosissimo e drammatico autoritratto. Abbandonando la pittura e risalendo alla seconda metà del Novecento, se non proprio di scorticamenti, la fotografia è stata testimone di tagli o ferite di vario genere autoprodotte dagli artisti della body art, nel corso delle loro performance.
Lontano da un’esperienza performativa, ma molto attento all’arte contemporanea, Giacomelli stesso definiva i toni fortemente contrastati dei suoi paesaggi come cicatrici che ciclicamente si riaprivano arrecandogli dolore.
Insomma, tornando al mondo classico: Narciso, Medusa, Marsia…che potere mitico ha su di noi la fotografia? Ci fa innamorare perdutamente del nostro ego? Ci pietrifica? Ci scortica lasciandoci sanguinanti? O ci permette di abbandonare tracce fragili come pellicole, rinnovandoci a ogni stagione della nostra vita?
Nota a margine: il citato articolo di Oliver Wendell Holmes, è inserito nel libro di Giovanni Fiorentino Il flâneur e o spettatore. La fotografia dallo stereoscopio all’immagine digitale, Franco Angeli, Milano, 2014. Ve ne consiglio la lettura.