Sono tre gli spunti che convergono in questo articolo.
Primo: la definizione enfatica e stratificata di “magnifici randagi” che Ando Gilardi diede dei fotografi ambulanti, pionieri della fotografia.
Secondo: la lettura di due libri legati alla tradizione orientale ortodosso-cristiana, ovvero Racconti di un pellegrino russo, attribuito con incertezza allo ieromonaco Arsenij Troepol’skij e Il deserto parla di Lucien Regnault.
Terzo: il mito della caverna di Platone, da molti ritenuto uno dei pilastri ontologici su cui poggia la fotografia.
Qual è il file rouge che unisce questi tre percorsi assai differenti fra loro? La solitudine o – per amor di precisione – l’eremitaggio.
Soli con il loro andare, barattando quel po’ di sostentamento economico con un ritratto, furono i “magnifici randagi” cui Gilardi riservò giustamente un posto centrale e oserei dire quasi sacrale nella storia della Fotografia.
Soli, alla ricerca di una verità ineffabile, vissero gli eremiti che sfidarono la steppa o le immense distese di sabbia, disposti esclusivamente a incontri fugaci, avvezzi a esprimersi – in particolare i Padri del deserto – mediante apoftegmi, vale a dire mediante brevi sentenze auto-conclusive delimitate da una sorta di margine linguistico – formale, assai simili a un’illustrazione.
Isolati, incatenati spalle al mondo, gli uomini che Platone, nel libro settimo de La Repubblica, collocò in una caverna la cui parete fungeva da schermo per la proiezione di una realtà sempre filtrata e perciò mai esperibile.
Per sbrogliare la matassa del mio ragionamento, dal ginepraio di significati contenuti nel “gettonatissimo” mito classico, non mi serve che un unico elemento: la caverna. La caverna come spazio fisico prodromo della fotocamera, poiché, come avrete intuito dagli indizi finora disseminati, ciò su cui intendo brevemente riflettere è la componente eremitica che vive o sopravvive (in una contemporaneità tutta votata alla condivisione, seppur virtuale) dentro ad alcune persone che praticano la fotografia e si impegnano a comprenderla a fondo.
Non sulla solitudine romantica del fotografo, irrorata da fiumi di inchiostro e sovente intrisa di oleografia, vorrei interrogarmi, ma su un preciso e assai più potente desiderio del fotografo. Quello di sottrarsi al mondo, rifuggendolo in un’infinita sequenza di attimi, per meglio meditarlo, mediarlo e rappresentarlo.
Non ho risposte certe, le fonti a cui sto attingendo non sono ancora sufficienti. Ho invece alcune domande, che pongo, in primis, a me stessa e poi ai miei lettori.
Cosa va cercando chi si porta appresso una piccola caverna in grado di offrire ricovero alle sue visioni più intime?
Oltre a essere un rifugio accessibile solo a chi la usa, la fotocamera, in qualità di apparecchio che misura e “spezza” il tempo, potrebbe essere un ipotetico sostituto della clessidra, tradizionalmente associata all’iconografia dell’eremita per simboleggiare la caducità della vita e delle cose? Le immagini, destinate anch’esse a scomparire, non sono in fondo che una disperata rincorsa all’eternità: passano come granelli luminosi attraverso un foro sottile per andarsi a depositare su una pellicola o una scheda di memoria. Ogni sessione di ripresa un capovolgimento e un nuovo fluire…
Allontaniamoci dall’armamentario tecnologico. Allontaniamoci anche geograficamente. Pensiamo per un istante all’aspetto meditativo dell’eremitaggio e confrontiamolo con quella feconda produzione proveniente dal Giappone, che sull’antico concetto filosofico di vuoto sta costruendo una delle più interessanti pagine della fotografia contemporanea, forse fra le poche capaci di contrastare l’horror vacui che ha per secoli caratterizzato l’arte figurativa Occidentale. Vuoto che è territorio sconfinato e spopolato, attesa, libertà mentale, predisposizione solipsistica e inviolabile al manifestarsi della meraviglia. Che è anche tecnico e tecnica. Che è pensiero riversato sulla composizione.
Non so, l’ho anticipato. Non so quanto romiti e randagi, poco importa se magnifici, siano per loro stessa natura certi fotografi. Ma so che a volte mi piace immaginarli così. Attivi in luoghi inaccessibili allo sguardo. Innamorati dell’invisibile. Soli, per scelta.
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Dove sei?
Giovanni Morelli, altresì conosciuto con lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, fu uno storico dell’Arte che visse tra il 1816 e i 1891, studiò in Germania e – soprattutto – mise a punto un sistema comparativo per verificare l’autenticità delle opere e la loro corretta attribuzione. Secondo il “metodo morelliano”, ogni artista trasmetterebbe la propria identità, qualcuno scriverebbe la propria cifra stilistica, a una serie di particolari trascurabili eseguiti meccanicamente. Particolari come unghie, panneggi, lobi delle orecchie e via dicendo.
Va da sé che pittura e fotografia sono pratiche differenti, ma, se ci pensiamo bene, l’eclettico Morelli ci fornisce un orientamento anche per approcciare le immagini realizzate con una fotocamera.
Esistono dettagli che rendano riconoscibile un fotografo? E se esistono, dove si rintanano?
C’è insomma qualcosa che si deposita su ogni fotografia, sfuggendo alla regia attenta di chi preme l’otturatore? Io penso di sì ed è specificamente quello che vado cercando mentre esamino un lavoro. Un po’ come se “grattassi” un’immagine con lo sguardo, andando a frugare nei suoi angoli più dimessi e sperando di trattenere tra le ciglia una traccia “genetica” e non riproducibile di chi l’ha scattata.
Mi affido a una speranza, poiché, purtroppo, non sempre questa ricerca va a buon fine. E se un autore perde o non possiede l’automatismo, ovviamente inconscio, che gli permetta di trasferire la sua intemperanza caratteriale all’interno di un’inquadratura, allora resta solo la maniera. Nemmeno il mestiere, vocabolo a cui poter dare, nella sua attinenza con l’artigianalità, una qualche valenza positiva o creativa. No: rimane unicamente la maniera, vuota, inutile e spesso eseguita male, rimane quel guardare ai “grandi” con l’ottusa presunzione del dilettante della domenica, convinto di essersi portato a casa l’esperienza di Van Gogh solo per esser stato ore sotto la canicola a spremere tubetti di giallo per dipingere un campo di grano (per mera notorietà ho pescato un esempio dalla pittura estendibile a ogni pratica, ça va sans dire).
Ciò non significa che le “citazioni” non siano ben ammesse, al contrario: forme, contenuti o rimandi agli autori che ci hanno preceduto e ci hanno segnato, di norma, arricchiscono culturalmente un lavoro, un testo o una ricerca, ma debbono essere elaborati, non semplicemente copiati. Non basta neppure un’idea originale se declinata secondo schemi ricalcati con passività: qui siamo nell’ambito visuale, ancor prima che concettuale.
La maniera è una scorciatoia. È facile, stagnante, non porta a nulla. Invece fotografare è un continuo e faticoso movimento tra se stessi e il mondo. Un movimento che appartiene all’individualità dello sguardo, alla soggettività, all’irripetibilità di un individuo. Un movimento che, se è sincero, lascia trapelare almeno un indizio riconducibile all’autore, a lui solo.
Snidare un indizio non è semplice, ma l’intuito e un po’ di conoscenza spesso vengono in soccorso. Per scovarlo, chi osserva, come me, interrogherà l’immagine chiedendole: «dov’è?», mentre chi scatta, forse senza mai trovare risposta, interrogherà se stesso chiedendosi: «qual è?».
Domande complesse, imprescindibili e perfino irriverenti, da porsi con la stessa urgenza avvertita da André Breton, quando, nel 1938, scriveva: «…a quali leggi irrazionali obbediamo, quali segni soggettivi ci permettono di volta in volta di trovare la direzione giusta, quali miti e quali simboli esistono in potenza in un certo amalgama di oggetti, in una certa trama di avvenimenti, quale significato attribuire a quel meccanismo dell’occhio che permette di passare dal potere visivo al potere visionario?».
Due cuori e un capanno
Qualche settimana fa, accompagnata da due cari amici che praticano seriamente la fotografia, Gabriella Martino e Gianni Rossi, ho visitato una piccola oasi naturalistica appena inaugurata e adibita al birdwatching. Il percorso, guidato, prevedeva l’accesso ai capanni ove i fotografi, dopo aver pagato una tariffa oraria, potranno appostarsi in attesa di un esemplare disposto inconsapevolmente a posare per loro. Capanni, o meglio piccole casette confortevoli, calde e dotate di un grande vetro che si affaccia direttamente sull’habitat di pregevoli uccelli stanziali e migratori.
Suscitando spesso dubbi tra i miei colleghi, dubbi che ancora non mi sono chiari, da anni presto molta attenzione alla fotografia naturalistica, poiché ne intravvedo le potenzialità autoriali. Eppure il pomeriggio trascorso in quel piccolo spazio incontaminato mi ha lasciato perplessa e irritata.
Credo fermamente nella componente esplorativa della fotografia, che certo va ben oltre la sua applicazione squisitamente scientifica: ed è in particolare quando essa si rivolge a soggetti botanico-faunistici, che ne riconosco le origini risalenti alle primitive incisioni rupestri, indiscusse eredità ancestrali del nostro bisogno di esprimerci e comunicare. L’Homo sapiens ha da sempre sentito la necessità di rappresentare e rappresentarsi, di rapportarsi creativamente, insomma, con la realtà che lo circonda, attribuendole significati e simbologie sovente “saccheggiate” proprio dal mondo animale o vegetale.
Per questo motivo, penso quindi che il segreto per una buona fotografia (non solo naturalistica) non derivi tanto dal possedere un adeguato corpo macchina, quanto piuttosto nel divenire noi stessi corpo dell’ambiente che decidiamo di sondare. Tradotto in termini più semplici: chi ha una visione antropocentrica dovrebbe cercare di farsi uomo tra gli uomini, chi, al contrario, allarga la sua ottica all’intero mondo naturale, dovrà sforzarsi di farsi animale tra gli animali, o albero in una foresta.
Sostare/spiare ore dietro a uno schermo, comodamente seduti su una morbida poltroncina girevole, sperando che un airone distenda le sue ali per essere catturato da un obiettivo, invece, è altro e ha una componente voyeuristica molto marcata. Componente che certo appartiene alla fotografia, che di per sé non è disprezzabile e che ha fornito esempi notevoli nella storia della fotografia e delle arti visive in genere, ma che resta comunque altro.
Consideriamo che cose e attitudini reclamano di essere chiamate con il loro nome. E che amare la natura, amarla fino a volerla interpretare con la fotografia è materia su cui riflettere senza concederci sconti.
Lo insegna egregiamente Jean-Christophe Bailly, ne Il partito preso degli animali, libro suggeritomi felicemente da Gabriella: «(…) immaginare quello che accade e quello che si prova – quello che c’è – quando, per esempio, si sta a trenta metri dal suolo e si salta di ramo in ramo, oppure che cosa c’è e cosa comporta avere un corpo che pesa venti grammi e percorre migliaia di chilometri (le rondini) o, all’opposto, averne uno di parecchie tonnellate con cui entrare nell’acqua di un fiume (gli elefanti). E via dicendo. Dunque immaginare le sensazioni che provano gli animali, da dove derivano le loro gioie e le loro frustrazioni. Non perché può essere divertente, ma perché da ognuno di questi percorsi la nostra visione del paesaggio riemerge allargata, arricchita, emancipata».
Capite bene che tutto ciò, al riparo e dietro a un vetro, non è possibile.
E arrivaron gli ambasciatori
Molto è stato scritto su Gli ambasciatori di Francesco I alla corte di Enrico VIII, dipinto firmato da Hans Holbain il Giovane nel 1533 e custodito oggi dalla National Gallery di Londra. Tra coloro che si sono spesi per darne una lettura puntuale, spicca Michel Butor, il quale, nei suoi Saggi sulla pittura, libro che consiglio vivamente, fornisce un’analisi impeccabile dell’opera.
Non solo Butor, personaggio assai sfaccettato, ma tutti gli storici dell’Arte concordano nel ritenere che i due ambasciatori siano la raffigurazione del potere temporale e del potere spirituale e che i ripiani dello scaffale presso cui posano, rappresentino, differenziandoli e unendoli al contempo, il Cielo e la Terra.
A noi, qui, non interessano le vicende dei due delegati, ma alcuni degli strumenti inseriti nel quadro sulla mensola superiore e sul pavimento, ovvero gli apparecchi astronomici utilizzati per individuare la posizione dei corpi celesti e il teschio realizzato con la tecnica dell’anamorfosi, tecnica che produce un’immagine fortemente distorta, la cui forma si rivela intelligibile solo se osservata da una particolare angolazione.
Gli apparecchi per guardare oltre, così come l’anamorfosi, spesso inclusa fra le suggestioni del precinema, erano fortemente presenti già nel Cinquecento e – attraverso i tre secoli successivi – ci conducono dritti alla fotocamera, salutata, fin dalla sua messa a punto, come una protesi in grado di dilatare le possibilità fisiologiche della vista umana, vestendo di visioni strabilianti il nostro povero occhio nudo.
Spazi siderali o microrganismi impercettibili, insomma l’invisibile declinato nelle sue forme più variegate: tutto poteva essere sondato, rivelato o millantato con la nuova tecnologia. Un’antica tensione diventava finalmente realtà.
Non è un caso che le contraddizioni scaturite fin dalle origini della fotografia da un’inedita e irresistibile frenesia dello sguardo, contagiassero anche uomini interessati più alla scienza che alla trascendenza.
A tale proposito, mi piace ricordare un piemontese, il poliedrico casalese Francesco Negri, il quale, nel 1885 circa, ottenne una preziosissima Fotomicrografia del Bacillo di Koch, ma, quindici anni prima, non rinunciò a rappresentarsi in un Doppio autoritratto spiritista: un divertissement che già metteva in discussione l’eccessiva credibilità conferita all’immagine fotografica.
Cielo e Terra, corpo e spirito, verità e menzogna. E una sola protesi. Protesi che produrrà un numero infinito di fotografie in grado di trasportarci dall’Ottocento fino ai giorni nostri. Citerò pochi esempi, i miei preferiti, forse chiarificatori, certo opinabili e non esaustivi: La Luna di Rutherfurd (1865), Giove e Saturno di Prosper e Paul Henri (1887), Raggi X del corpo umano di Zhender (1896), i tagli innaturali degli Equivalenti di Stieglitz (1923-1931) e dell’Onda verticale di Minor White (1947), i mari “immobili” dei Seascape di Sugimoto (a partire dal 1980), le Costellazioni di Fontcuberta (1993), in realtà moscerini spiaccicati sul parabrezza della sua auto, o, sempre dell’autore spagnolo, gli Emogrammi (1998), ovvero piccole gocce di sangue prelevate dagli spettatori che, drasticamente ingrandite, assumono forme poetiche e simboliche.
E a questo personalissimo elenco aggiungerei pure l’intero lavoro di John Hilliard che sulla fotografia e sulla fotocamera intesa come strumento protesico e illusorio, continua a riflettere e impartire buoni insegnamenti.
Tanta è la strada percorsa nella storia della visione, ma qual è la meta finale?
Mi piace pensare che la risposta si trovi proprio nel quadro di Holbein. Che, non dimentichiamolo, è un ritratto: gli oggetti che circondano gli ambasciatori compaiono per raccontare realisticamente e metaforicamente la loro storia. E lo stesso vale per noi. Per quanto dispositivi, protesi, suggestioni ci portino lontano, alle soglie dell’impensabile, il vero scopo delle nostre ricerche è e resterà sempre quello di dare un senso alla nostra esistenza.