Prima stagione: LEGGERE DI FOTOGRAFIA, LEGGENDO D’ALTRO
Conversazioni con autori ed esperti, per conoscere e creare nuovi collegamenti con il fotografico Episodio 1 Marco Introini: il paesaggio tra ascolto e osservazione
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Estate, tempo di vacanze.
Mi chiedo: è possibile prendersi una vacanza dalla fotografia? E se sì, in che maniera e per ottenere quali benefici?
Partendo dal presupposto che non sono solo il mirino di una fotocamera e lo schermo di uno smartphone a garantire l’osservazione del mondo – né tanto meno l’esistenza nel mondo – ritengo che una pausa sia salutare e perciò raccomandabile.
Ciò premesso, ecco, in versione last minute, un paio di considerazioni e qualche suggerimento.
“Staccare” dalla fotografia non significa chiudere gli occhi. Anzi, al contrario, significa aprirli, alzarli, recuperare uno sguardo che troppo sovente è ripiegato su se stesso, sovraccarico, stanco.
Prendersi una vacanza dalla fotografia, in fondo, è prendersi una vacanza da se stessi: appartarsi, ridimensionarsi, sottrarsi, non sentirsi al centro di nulla (ancora meglio: essere consapevoli di non essere al centro di nulla).
È fare altro e — soprattutto — fare spazio, uno spazio vuoto ma non vacuo, che sappia finalmente accogliere nuovi stimoli, arieggiato al punto da lasciar andare ciò che non serve, illuminato da quella leggerezza che Italo Calvino amava tradurre in inglese, lightness.
E se davvero le immagini fossero indispensabili? Che fare?
Tornare a leggerle. A leggere le fotografie degli altri, leggerle anche segretamente, se disgraziatamente fosse un peso ammettere la bravura altrui.
Leggerle, scatto dopo scatto, con la lentezza di chi sta recuperando o imparando una lingua differente, soffermandosi o tornando indietro laddove non si è capito. Senza fretta, né frustrazione.
Non mi dilungherò oltre, non voglio peccare di presunzione decretando cosa sia meglio per chi ha la bontà di seguire il mio blog, ma sono certa che ognuno saprà organizzare la propria fuga dalla fotografia, con tempi e modalità adeguati.
Mantenendosi curioso, ma sentendosi provvisoriamente e felicemente disimpegnato, come uno studente al termine dell’anno scolastico. Promosso, rimandato o bocciato. Poco importa. Libero. Fino a settembre, quando tutto, siamone certi, ricomincerà.
Buone vacanze!
Sono passati molti mesi, quasi dodici, dall’ultimo articolo pubblicato sul mio blog.
Diversi lavori di curatela mi hanno tenuta lontana da questo spazio, assorbendo tempo e scrittura.
Per quanto mi riguarda, scrivere per altri non è differente dallo scrivere per sé – il corsivo è d’obbligo: trattandosi di un blog non è certo solo per sé che si scrive – ed è quindi da ciò che ho “prodotto” per una delle esposizioni da me curate che desidero ripartire.
Senza aggiungere altro, vi ripropongo, nella sua interezza, il testo che ha corredato La mia famiglia di Efrem Raimondi, mostra (con catalogo) allestita allo spazio BDC28 di Parma dal 9 al 25 novembre 2018, in occasione del Colorno Photo Life festival.
LA SUA FAMIGLIA
Mio fratello è figlio unico […] perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni.
Rino Gaetano
D’impatto, senza giri di parole: La mia famiglia è un azzardo. Lo è tanto per Efrem Raimondi, che ha deciso di farne una mostra e un catalogo, quanto per me che l’ho curata e ne scrivo.
La ragione che giustifica un incipit così perentorio è piuttosto evidente: La mia famiglia non trova collocazione nel panorama fotografico attuale. Non è frutto di un censimento parentale condotto seguendo i criteri della fotografia documentaria o concettuale e neppure il canovaccio visivo di un tormentato racconto intimista.
In buona sostanza, non è contemporanea. È moderna. Di una modernità rapportabile al periodo in cui l’artista, pittore o fotografo che fosse, equiparava l’autoritratto o il ritratto familiare al resto della sua produzione e lo affrontava non per celebrare la propria esistenza all’interno di una vicenda genealogica, ma per verificare la propria esperienza in seno a un determinato linguaggio espressivo.
Mosso dalla stessa urgenza, Efrem Raimondi ha recuperato le immagini scattate negli anni a se stesso e ai suoi affetti più cari, le ha organizzate in un corpus compiuto e, dopo averle trasferite e contemplate su un registro squisitamente fotografico, è tornato a domandarsi e a domandare se, al di là dei soggetti e del conseguente coinvolgimento sentimentale, «la fotografia ritenga di poter essere effettivamente la fotografia» (Paolo Fossati, 1998).
Al netto di qualsiasi dazio imposto dalla contemporaneità e di qualsivoglia peloso (pre)giudizio ispirato alla sacralità della famiglia, per comprendere appieno la mostra, dovremo quindi accettare che l’autore abbia: rifiutato ogni forma di progettualità; sostituito l’idea di serie o sequenza con quella di raccolta eterogenea; visto, laddove altri vedrebbero un ricordo da preservare, un’opera da esporre al pubblico e immettere sul mercato.
Sull’ultimo punto in elenco, a mio avviso cruciale, conviene soffermarsi: non solo queste fotografie hanno un prezzo, ma parte di esse sono già state acquistate e inglobate in una collezione.
Tuttavia, ed è qui che si va a sciogliere un resistente nodo culturale, alla vendita materiale non corrisponde alcuna svendita morale.
Il nostro potere d’acquisto e – mi ci metto in mezzo – la nostra capacità analitica hanno effetto e si esauriscono, infatti, nel mero spazio di rappresentazione, ossia entro e non oltre il perimetro di ciascuna fotografia. È Raimondi in prima persona a ricordarcelo, a partire dal titolo, con l’utilizzo di un aggettivo possessivo che non lascia margine alla trattativa: la famiglia è sua. Ne ha inquadrato i componenti – umani, gatti e una pianta d’appartamento – premurandosi però di blindare “fuori campo” le motivazioni profonde e ineffabili che, di volta in volta, lo hanno portato ad aprire l’otturatore.
Fatta eccezione per l’unica fotografia non in commercio posta, al pari di una citazione in esergo, in apertura di mostra (Efrem bambino, il padre che lo aiuta a reggere una fotocamera) e per l’autoritratto sistemato specularmente in chiusura di percorso espositivo (Efrem fotografo ormai adulto, la sua compagna che legge), nessun’altra opera contiene e mette in relazione elementi dal potenziale evocativo o narrativo. La mia famiglia procede per immagini iconiche, autosufficienti e perciò esclusive.
Non svela, esiste.
Il resto, per noi, è storia ignota.
Gaston Bachelard, ne La poetica dello spazio, introduce il concetto di “estetica del nascosto” o “fenomenologia del nascosto” con questa breve ma acuta osservazione: «un cassetto chiuso è inimmaginabile. Esso può essere solamente pensato. E per noi, il cui compito è descrivere ciò che si immagina prima che sia conosciuto, ciò che si sogna prima di verificarlo, tutti gli armadi sono pieni».
Desidero immeritatamente prendere in prestito le parole scritte dal filosofo francese nel 1957, per applicarle a un aspetto per nulla marginale del fare fotografia o fare arte con la fotografia, come più vi piace. E modulando il suo pensiero sulle mie intenzioni – con sentite scuse ai puristi della fenomenologia – aggiungo che a ogni cassetto o armadio pieno corrispondono una parete, un libro, una pagina web vuoti.
Prima dell’avvento di Internet e dei social, i cassetti erano pieni fotografie o lavori fotografici. Dimenticate o volontariamente tenute sotto chiave, le immagini vivevano lunghi periodi di reclusione, nascoste allo sguardo non solo di un ipotetico pubblico, ma anche del loro stesso autore.
Premetto, onde evitare fraintendimenti, che non credo a chi sostiene di non sentire l’esigenza di mostrare i propri lavori, condannandoli alla clausura perenne. È vero, si fotografa per se stessi, ma è altrettanto vero che la diffusione e il confronto con lo spettatore restano una parte imprescindibile dal percorso espressivo.
Inoltre, ammetto senza remore che grazie ai social ho potuto stabilire contatti umani e professionali ormai irrinunciabili.
Fugato il panegirico dei bei tempi andati, vorrei comunque azzardare una riabilitazione del “cassetto chiuso”, sottolineandone l’utilità.
Non tutto ciò che si produce è subito pronto per essere mostrato. Non tanto poiché potrebbe necessitare di aggiustamenti non percepibili nell’immediato, quanto poiché chi lo ha prodotto potrebbe sentire – più o meno razionalmente – che non è il momento.
Se non si fotografa per commissione, non si è fotogiornalisti o se la simultaneità non è una scelta concettualmente significativa, è salutare – perfino salvifico – non farsi fagocitare da tempi sclerotici e indotti.
Oltre che alle sue fotografie, infatti, un autore dovrebbe corrispondere in egual misura al momento in cui decide di mostrarle: in altre parole, oltre che affannarsi sul dove, è bene che sappia valutare il quando.
Se dunque spazio e tempo sono inscindibili, lo spazio idoneo a preservare le immagini in attesa di un tempo “maturo” potrebbe essere il cassetto.
Giunti fin qui, varrebbe la pena di porsi alcune domande: è più sopportabile non ritrovarsi su pareti, pagine, siti o bacheche facebook o non essere presenti al e nel proprio lavoro? A chi si decide di rendere conto? Agli altri – chi? – o a se stessi?
L’attesa non è necessariamente sinonimo di occasione perduta. Forse ciò che manca ai lavori che non sono pronti, è davvero l’azione del tempo. Di un tempo che, depositandosi, conferisca struttura e – perché no? – plus valore estetico a ciò che è ancora debole, non completamente formato. Penso che un distacco temporaneo tra il fotografo e le sue fotografie sia funzionale a entrambi e permetta loro in qualche modo di ritrovarsi, di riavviare una conversazione condotta con maggiore consapevolezza.
A tale proposito mi pare particolarmente incisiva una dichiarazione rilasciata da Mario Giacomelli a Francesca Vitale per la rubrica radiofonica L’occhio magico mandata in onda su Rai Radio 3 il 20 gennaio del 2000: «L’immagine prende a vivere dal momento che tu la interroghi, che non è vero che è morta, lei è muta, lì, ha bisogno di dialogare con te ma ha bisogno che tu dialoghi con lei, perché lei ha un’altra educazione cioè, è lì, attenta, ha aspettato chissà quanti anni la tua attenzione e comincia a vivere dal momento che tu la interroghi».
Ora, essendo refrattaria alle regole e ancor più ai dogmi, non voglio certo sostenere che tutto necessiti di una lunga sedimentazione. Ma, ribadisco e semplifico, vi sono neonati che hanno bisogno di un periodo di incubazione per esser certi di sopravvivere nel mondo esterno.
Penso infine che questa breve riflessione non debba limitarsi agli autori, ma possa essere estesa pure a coloro che, come me, di fotografia si occupano e che sembrano essere perennemente in preda a una frenesia di cui mi sfugge il senso.
Sarà certo un mio limite, ma reputo che non potersi più appoggiare alla citazione di Bachelard, ovvero non riuscire più a immaginare armadi pieni, caldeggiando invece un’interrotta condivisione di immagini in tempo reale, sottragga fascinazione e – soprattutto – sostanza a ciò che sfila sotto i nostri occhi. Se, come sosteneva Giacomelli, pur con un’intenzione quasi animistica che non mi appartiene, un’immagine sa attendere anni in cambio di attenzione, allora anche chi è chiamato a valutarla deve accettare tempi più dilatati, adeguandosi al ritmo produttivo dell’autore, senza mai forzarlo.
La fretta dettata dalla smania di visibilità, sia essa appartenente a un autore o a un curatore, non mi convinceva in passato, quand’era assai rara, né mi convince ora.
Provo a comprendere, ma alla fine mi ritrovo sempre a fare i conti con lo stesso quesito: cosa mi posso aspettare da chi non sa aspettare?
Nei laboratori che da anni tengo in alcune città italiane, inserisco un’ampia sezione teorica dedicata alla storia della fotografia.
Per mia formazione e per ragioni che cercherò di riassumere in questo articolo, l’approfondimento storico-culturale è una parte irrinunciabile dei miei percorsi didattici.
Voglio subito sgombrare il campo da ogni possibile insinuazione o fraintendimento. La mia scelta non è dettata dall’amore per quel nozionismo che trova compimento e compiacimento in una sterile e irritante esibizione di sapere.
No, i motivi stanno altrove.
La storia della fotografia, inserita dialetticamente nella storia delle immagini e contaminata da altre discipline, rappresenta una piattaforma di riflessione sul particolare momento in cui ci si ritrova a fare o trattare la fotografia.
La storia ci racconta il passato per inchiodarci al presente.
E lo fa ribadendo, per qualsiasi periodo preso in esame, la totale immersione degli autori nel loro tempo, tempo che, in grazia o a causa di congiunture irripetibili, ha determinato urgenze, connessioni, mentalità, gusti. È quell’essere dentro ad aver fatto e a fare la differenza, a garantire credibilità e autenticità e a scongiurare le “maniere”.
Guardare a ciò che è stato prodotto ci induce a prendere le distanze piuttosto che ad assorbire passivamente dei modelli. Certo la conoscenza ci permette di attingere a uno sterminato repertorio iconografico e ci dissuade dal rincorrere la chimera dell’originalità a tutti i costi, ma solo un senso critico modulato sul nostro presente può aiutarci a passare dall’imitazione alla citazione.
Perché se è vero – e secondo me lo è – che la fotografia, in qualsivoglia sua applicazione, ha valore unicamente se inserita in un sistema di relazioni e ricadute sociali, allora chi la pratica deve essere in grado di sentirsi parte integrante o disintegrante dell’ambiente e delle circostanze in cui vive e produce.
Ciò non significa togliere peso o fascino alla condizione solipsistica necessaria a ogni autore. Anzi, ciclicamente, come scriveva Ugo Mulas nel 1973 con una lucidità e un’intensità rare, è bene allontanarsi dal mondo per «capire cos’è questo sentirsi soli di fronte al fare, che cos’è non cercare più dei puntelli, non cercare più negli altri la verità, ma trovarla soltanto in se stessi […]».1
L’autore coincide con la sua opera, la inscrive nella sua biografia irriproducibile. Fotografa per se stesso, è legittimo e risaputo. Dopodiché, egli non si limita a parlarsi allo specchio. Si esprime – dal latino exprimere, premere fuori – spreme la propria sostanza in quel fuori che è la contemporaneità, alla ricerca di interlocutori.
Ecco, la storia insegna a sapersi collocare. Mi ripeto: chi ci ha preceduto l’ha fatto. Era immerso nel proprio tempo non tanto perché, banalmente, ne era coevo, ma perché lo determinava, a volte perfino anticipandolo.
Diffido di chi di chi si rilascia l’”auto-patente” di incompreso, sottraendosi a ogni confronto oppure di chi si crogiola nella confort zone di partiti presi anacronistici e ristretti, responsabili, secondo Rosalind Krauss, dell’impaludamento della fotografia.2
Che si decida di imboccare strade affollate o – al contrario – di aprirsi un sentiero, la mappa su cui tracciare il proprio percorso non può che essere una mappa aggiornata in grado di fornire anche le nostre coordinate. Una cartina su cui apporre un segno che indichi: «io sono qui».
Infine, è proprio volgendo lo sguardo alla storia, che si finisce – fatalmente – per smitizzarla, per non assumerla come una disciplina rigida e accademica.
Lo studio della storia non genera incanto, semmai apre al disincanto.
Non c’è un’unica storia della fotografia, vi sono diverse storie, anch’esse figlie di culture che si portano sulle spalle il peso di epurazioni e di celebrazioni indegne.
Del resto, come scrive Georges Didi-Hubermann in Scorze, «la cultura non è la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto “barbare” o “primitive” possano essere». 3
Dove siamo, dunque? Come ci siamo arrivati? Ma, soprattutto, cosa intendiamo fare?
Buon 2018!
1 Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino, 1973 2 Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996 3 Geroges Didi-Hubermann, Scorze, Edizioni Nottetempo, Roma, 2014
Nei giorni scorsi ho riletto Il Quartiere di Vasco Pratolini, ripescandolo fra i miei libri di gioventù. Ricordo che, all’epoca, con l’ingenuità e la presunzione di chi pensava di aver capito, lo relegai tra quei classici che si apprezzavano ma non ci appartenevano.
Nello stesso periodo, come molti miei coetanei, forse in reazione al vacuo edonismo degli anni ottanta, mi esaltavo invece per gli esponenti della beat generation. Ero ammaliata dalle loro storie di ribellione, senza concentrarmi sul vero elemento dirompente: la scrittura.
Da giovanissimi, si vive – o ci si illude di vivere – di “prepotenza”. Si coltivano ambizioni e contraddizioni. Poi il tempo passa e – a patto che si faccia un serio lavoro di introspezione – le cose accadono, cambiano e si ribaltano. Per citare un esempio, I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, romanzo a cui appendevo i vagheggiamenti di un’esistenza scapestrata, adesso risuona come un’eco lontana, mentre Il Quartiere mi parla così da vicino da spingermi alla commozione.
Intendiamoci: i grandi restano tali e Kerouac non si tocca. Solo che ora amo più la sua poesia – in primis gli haiku/pops – della prosa. In età adulta, insomma, si è portati a considerare con tenerezza non certo alcune opere, quanto l’adesione ardente con cui le si approcciava e – parallelamente – si è indulgenti nel ripensare alle recensioni sbrigative con cui si “liquidavano” capolavori affrontati senza alcuna struttura.
Va da sé che quel che vale per la letteratura, vale in egual misura per la musica o per il cinema.
Quindi, appurato che i mutamenti dei nostri paradigmi espressivo/esistenziali coinvolgono tutti i linguaggi da cui siamo istintivamente attratti, è logico far rientrare anche la fotografia in un analogo sistema di revisioni periodiche.
Prima di proseguire, onde evitare fraintendimenti, è necessario che io faccia una precisazione: so bene che, per chi fa il mio lavoro, è d’obbligo mantenere una distanza emotiva nei confronti della fotografia che ci viene sottoposta e su cui si è chiamati a riflettere. Ma ciò non esclude che la passione da cui questa professione ha preso forma, continui a riflettersi pure su un piano privato e in continuo svolgimento. Ritengo dunque decisamente salutare abituarsi a prendere un diverso tipo di distanza: quella da noi stessi. È su di noi che occorre applicare senza sconti tutta la strumentazione critica di cui siamo dotati, per comprendere quando e come la storia delle immagini abbia intersecato la nostra vicenda personale, rintracciando presenze rassicuranti, abbandoni , ritorni e nuovi incontri.
Perché se non siamo in grado di smarcarci da noi stessi, di collocare i cambiamenti del nostro rapporto con la fotografia in un’ottica fisiologicamente e – oserei dire – scientificamente evolutiva, come possiamo arrogarci il diritto non solo di valutare il lavoro degli altri, ma soprattutto di spronarli a un miglioramento e a una progressione costanti?
Più di ogni mio ragionamento, a chiarire quanto l’età non sia solo un fattore anagrafico ma un “dispositivo” con cui misurare le oscillazioni a cui ho accennato sopra, interviene la lucida e definitiva frase di Edward Weston, riportata in esergo ai suoi diari: «Ho già scritto la mia introduzione. Eccola: com’ero giovane. Questo comprende tutto».
Giunti fino a qui, potreste anche fermarvi alle parole esaustive di Weston. Di certo non mi offenderei. Tuttavia questo è un blog in cui mi concedo riflessioni individuali – a tratti diaristiche – e non voglio pertanto privarmi del piacere di condividere, con chi avrà la pazienza di leggermi, alcune brevi e sparse riflessioni che mi riguardano.
Prenderò a campione tre periodi topici: l’infanzia, i diciott’anni e l’avvio della professione.
Quand’ero piccina, a Natale e al compleanno, chiedevo in dono libri fotografici sugli animali, nello specifico sui felini. Quei libri avevano su di me lo stesso effetto dei racconti di Kipling o Salgari: leoni, pantere nere e tigri erano creature troppo belle per restare intrappolate tra i bordi di una fotografia. Puntualmente sconfinavano nella mia fantasia di bambina. Mi dispiacque separarmi da visioni tanto affascinanti e debbo ammettere che non ho mai smesso di scorgere nella fotografia naturalistica un potenziale evocativo in grado di sollevare la polvere depositata su ciò che resta della nostra fanciullezza. Un vero peccato che tanta, non tutta per fortuna, fotografia applicata al mondo naturale sia stata “addomesticata” e resa inespressiva dai parametri troppo rigidi entro cui è costretta. Non escludo, a tal proposito, che la mia refrattarietà al concetto di “genere” in fotografia derivi appunto dal desiderio di abolire il concetto di gabbia in ogni sua declinazione.
Abbandonate le foreste, intorno ai diciott’anni, avvisai i primi e concreti segnali di coscienza civile e politica, segnali che mi condussero dritta verso il reportage. Documentazione, denuncia, libertà…Mai avrei sperato di poter un giorno occuparmi dell’archivio di un fotocronista. E – soprattutto – mai avrei potuto prevedere che, proprio quel lavoro che tuttora m’impegna, mi avrebbe indotto a rivedere alcune entusiastiche posizioni giovanili e a penetrare, condividendole, le ragioni di un lungo dibatto critico che ha progressivamente smitizzato la figura del fotogiornalista, senza peraltro svilirla.
A laurea conseguita, l’avvio della professione fu segnata da alcuni autori che mi permisero una maggior presa di coscienza sulla fotografia. Voglio soffermarmi su due nomi che perme, per la mia vicenda personale, stanno alla letteratura come Kerouac e Pratolini: Joan Fontcuberta e Joseph Sudek.
Quando scoprii Herbarium e Fauna segreta, per citare due titoli assai conosciuti, Fontcuberta divenne un punto di riferimento. Ovviamente ancora oggi resta tra i miei preferiti. I suoi “vaccini visivi”, come lui stesso ama definirli, comparsi al momento opportuno nel lungo percorso di decostruzione della credibilità fotografica, rimangono una tappa imprescindibile per chi voglia davvero comprendere la contemporaneità. Ma non dimentichiamo che è da piccoli che ci si vaccina. Gli anticorpi servono per crescere sani. O – se non del tutto sani – comunque per crescere.
Succede quindi che io continui a riconoscere tutta la forza di quei lavori, ma abbia però esaurito ogni tipo di emotività nell’approcciarmi a essi. Anzi, restando nel tema a me caro degli erbari e inserendo la fotografia in un più complesso sistema artistico-culturale, ho proprio di recente collocato l’erbario fontcubertiano un gradino sotto a La botanica parallela di Leo Lionni, opera grafico – letteraria che, fra l’altro, precede di sette anni il lavoro dell’autore catalano.
Joseph Sudek, com’è intuibile, rappresenta il caso opposto. Anch’esso annoverato tra i miei prediletti, mi colpì in origine per ragioni squisitamente estetiche, ragioni che lo ponevano ai vertici della fotografia praticata in “purezza”. Allo stato attuale, le immagini di Sudek, in particolare quelle dedicate ai giardini, mi suggeriscono sensazioni differenti. Su di loro proietto una cronica propensione all’eremitismo maturata in anni di lavoro solitario in archivio, un graduale allontanamento dalla mondanità fotografica che si risolve nella mitologia dell’esserci a ogni costo, un grumo mai sciolto di incomunicabilità con il prossimo, un’incessante ricerca su fotografia e botanica che sovente sfocia nell’incanto.
In chiusura, rileggendo quanto ho scritto, non so davvero figurarmi in quali termini questo accenno di “verifiche” possa essere di qualche aiuto o interesse per chi ha avuto la bontà di seguirmi. Forse nessuno. Me ne farò una ragione. Mi preme piuttosto chiarire, specialmente a chi partecipa alle mie proposte curatoriali o didattiche, che non ho certezze da offrire e che per me la fotografia è stata e continuerà a essere qualcosa di felicemente irrisolto.
Un terreno di indagine su cui germoglieranno i dubbi da raccogliere nelle stagioni a venire.
Giorni fa mi sono ritrovata a confrontarmi sulla fotografia con Ada Sola.
Capita sovente, guardandomi “intorno”, che io mi rivolga a lei per interrogarmi sul lavoro mio e degli altri, siano essi fotografi, curatori, galleristi o teorici della fotografia nel senso più ampio del termine.
Avevo voglia di stare in sua compagnia e così sono partita da lontano. Dall’inizio. Il tuo, Ada…
Ho iniziato a fotografare verso la fine degli anni sessanta da quando, in occasione della maturità, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Nel primo periodo mi sono appassionata al nuovo strumento in modo ingenuo, direi ora, tuttavia necessario: non ero certo consapevole del mezzo né mi sollecitava utilizzarlo in forma creativa. Raccoglievo immagini per illustrare i viaggi delle vacanze o alcuni momenti della mia vita. Dal 1980 la fotografia è divenuta un aspetto, in alcuni momenti prevalente in altri marginale, del mio lavoro.
Già, il 1980, anno in cui, a Biella, la tua città, inaugurasti lo “Studio Galleria Figura”. Esponesti, per citare alcuni nomi, i lavori di Luigi Ghirri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Roberto Salbitani, Mario Cresci, Franco Vimercati, Paul Den Hollander. Fino al 1986. Hai tracciato un segno forte nella fotografia italiana: le tue intenzioni erano precise. Erano tese all’esercizio intellettuale, non certo commerciale. Lo si evince chiaramente da una lettera che scrivesti a Mario Cresci, poco tempo prima di aprire il tuo spazio.
Era certo che non volessi diventare un supermercato della fotografia. Volevo conoscere di persona gli autori con cui trattavo e conoscere con una certa precisione e comunque di prima mano il perché del loro lavoro e i significati della loro ricerca. Ti assicuro che la molla che mi ha spinto su questa strada è stata la curiosità di sapere, di conoscere le persone, di sapere cosa si stava muovendo, di collaborare col mio lavoro alla costruzione di riferimenti culturali non caduchi e di vasto orizzonte.
Che suono strano hanno le tue parole, pronunciate di questi tempi, tempi in cui gli orizzonti spesso si limitano al bordo dello specchio in cui ci si riflette. Ma passiamo ad altro… Terminata l’esperienza di “Figura” la fotografia è diventata uno strumento di indagine personale. Una sorta di grimaldello con cui ti sei aperta all’osservazione di te stessa e del mondo.
Non so se le mie immagini appaiono contemplative, ad ogni modo vorrebbero esserlo. La fotografia continua a presentare problemi irrisolti, non offre certezze. Però quello che c’era nell’immagine di proiettivo lo vedevo dopo, è così che la fotografia mi ha insegnato a scoprirmi, a lasciarmi andare…
Certo non ti sei fatta sconti, né ti sei mai fermata sulla soglia dell’esteticità fine a se stessa. Era un altro l’ideale, per così dire, armonico che andavi cercando.
Ho perso il contatto col “sentito-vero” ogni volta che ho cercato di fare una bella fotografia… Mi sono accorta che le mie immagini sfiorano margini urbani, di natura, incontri possibili mai accaduti. La porzione di mondo che ho fotografato è stata, a volte casuale, un sottile richiamo di fascinazione con-temporaneo solo al momento dello scatto. Ho cercato un equilibrio nelle forme naturali e anche in quelle che l’uomo impone alla natura…
Oltre a praticarla hai sovente usato la fotografia, servendoti di materiali iconografici d’archivio come espedienti per sondare il concetto di memoria o approdare ad altri linguaggi. Prendiamo tre progetti: Album di famiglia e Narrative Photography, entrambi del 1998 e Memory-Box, del 2000. Consideriamo i primi due:
Per “Album di famiglia” ho voluto rifotografare “foto ricordo” o di ricorrenze (battesimi, matrimoni, riti famigliari) da album privati, attualizzandoli. Accostare foto familiari a ricostruzioni visibilmente – ugualmente – false, in posa, di pubblicità, articoli di giornali, riviste illustrate… “Narrative Photography”, invece, mi ha portato a costruire brevi racconti sulla base delle fotografie. Verificare se c’era almeno una fotografia da una sequenza o da un lavoro che rappresentasse lo stato d’animo o lo stato della conoscenza o dell’esperienza in quella occasione. Doveva esserci qualcosa da “tenere in mano”, poter stringere, fermare e rivedere a distanza, come un artigianale libricino. La “storia” che non viene fissata nei libri è racconto orale. La memoria storica è negli scritti o negli oggetti materiali.
Memory-Box mi è particolarmente caro. Mi regalasti una delle scatole di cui era costituito. Mi dicesti: «Scegline una e portala con te». Presi una foto dove ti si scorge accanto a Stella, il tuo cane lupo.
“Memory-Box” è una installazione. Sono partita dal presupposto che la fotografia confluisca, come immagine, nelle scatole che compongono i nostri ricordi… Dopodiché ho predisposto un mucchio di qualche centinaio di piccole scatole di cartone nero: alcune aperte, altre richiuse contenenti fotografie da me selezionate. Mi sono detta: «Sarà il pubblico che – spero – avrà la curiosità di aprirle per entrare in contatto coi miei personali ricordi, che magari susciteranno suoi personali ricordi…». È chiaro: molte delle fotografie contenute nelle scatole nere mi riguardano, addirittura mi rappresentano in momenti della mia vita, ma è proprio il fatto che suscitino un riconoscimento, una identificazione o anche un rifiuto che fa sì che in questa operazione ci possano essere due identità da parzialmente ritrovare: la mia e quella di chi mi osserva e si osserva attraverso la mia proposta.
Si è fatto tardi, Ada, non possiamo proseguire, lo sai. Ma c’è spazio ancora per una domanda. La stessa che diede l’input a “Figura” e – presumo – a tutta la tua ricerca individuale: «Perché privilegiare per l’espressione artistica il medium fotografico?»
Perché ormai all’interno del mezzo nessuno può più credere che esso consenta la fissazione in immagine di una realtà.
Chi ha avuto il privilegio di conoscere Ada Sola, sa che questa è un’”intervista impossibile”.
Ada se n’è andata, a 57 anni, la notte dell’8 dicembre 2003.
Le parti in corsivo sono state estrapolate (e riportate fedelmente) da appunti di Ada Sola pubblicati sul sito adasola.altervista.org . Le uniche modifiche che ho apportato sono piccoli accordi o adattamenti dei tempi verbali a questo testo.
Ringrazio l’amico (mio, ma soprattutto di Ada) Pierangelo Cavanna per aver sopportato tutti i momenti di crisi che mi hanno accompagnato durante la stesura dell’articolo.
Ho avuto la grande fortuna di frequentare Ada dal 1995 al 2003 e mi scuso con lei se non ho saputo fare di più e di meglio per ricordarla.
So che sarà clemente. Amava a tal punto la fotografia da saperla perdonare.
Io, invece, non perdono la fotografia di averla dimenticata.
Pur essendo beatlesmaniaca da sempre, mi sono resa conto solo pochi giorni fa di non aver mai tentato di agganciare un ragionamento sulla fotografia alla straordinaria vicenda dei Fab Four.
Cercando di rimediare, la domanda che mi sono istintivamente posta riguardava l’eventuale e significativa presenza (non in termini numerici) del termine photography e dei suoi derivati all’interno delle loro canzoni.
Gli unici casi in cui è riservato spazio non tanto alla fotografia quanto a delle fotografie sono rappresentati da A Day in the Life e Penny Lane.
Partiamo con A Day in the Life, il brano che chiude il lato B del mitico album Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, album che, fra l’altro, celebrerà il suo cinquantesimo compleanno fra pochi giorni, il 1° giugno: nella prima strofa, le parole, strizzando l’occhio al vouyeurismo fotografico, si muovono in un climax che conduce dalla tristezza allo humor nero fino allo splatter: «Oggi ho letto la notizia oh ragazzi/ Di un uomo fortunato che è arrivato a destinazione/ E sebbene la notizia fosse piuttosto triste/ Beh mi è venuto proprio da ridere/ Ho visto la fotografia/ Gli era saltato il cervello in un’auto/ Non si era accorto che era cambiato il semaforo/ Un sacco di gente stava lì a fissarlo/ Avevano già visto il suo volto/ Nessuno era davvero sicuro/ Che fosse della Camera dei Lords». (1)
Sinistre le parole di A Day in the Life, equivoche quelle di Penny Lane. La canzone si apre con un accenno a Bioletti’s, il barbiere ricordato per l’abitudine di esporre in vetrina le fotografie di ogni «testa che ha avuto il piacere di conoscere» (2). I Beatles giocano ovunque con i significati e, in questo caso, ci si può legittimamente chiedere quale tipo di piacere abbia provato Bioletti nel “tagliare”ed esibire – la metonimia qui è d’obbligo – così tante teste. Una frase ambigua che si sposa con un mezzo ambiguo, qual è, strutturalmente, la fotografia. Se non volessimo accontentarci e desiderassimo proseguire il ragionamento tirandolo un po’ per i capelli – siamo dal parrucchiere in fondo – allora potremmo anche aggiungere che ogni primo piano fotografico, porta con in sé un rimando alla decapitazione. Bioletti fotografa le teste che taglia, i ritrattisti tagliano le teste che fotografano.
Esauriti gli scarni esempi estrapolati dalla produzione musicale, come continuare a scrivere di fotografia scrivendo di Beatles? Beh!…posando lo sguardo sulle copertine dei loro dischi, che, valutati in progressione, davvero si presentano come un piccolo ma esaustivo manuale sull’utilizzo (o sulla rimozione) della fotografia nei percorsi di rappresentazione e autorappresentazione.
Intanto occorre tenere ben presente che i quattro musicisti di Liverpool sono noti per aver svolto (quasi) sempre una parte attiva nell’ideazione degli artwork e nella scelta dei professionisti chiamati a realizzarli. Va da sé che il presupposto secondo cui le copertine funzionino come metaracconto di una parabola creativo-musicale è applicabile a ogni gruppo o cantante, ma quando si tratta di Beatles, mi si perdoni il favoritismo, la questione si fa più stratificata e divertente.
Procediamo con ordine. Please Please Me, 1962: John, Paul, George e Ringo raggiungono il fotografo scozzese Angus McBean nella sede del palazzo della Emi, situato in Manchester Square e – su sua richiesta – si sporgono sorridenti dalla ringhiera della scala interna. L’immagine riveste particolare interesse non tanto se presa singolarmente, quanto se abbinata a un altro scatto altrettanto conosciuto, quello realizzato da Don McCullin nel 1970 nello stesso luogo e con la stessa postura. Lo scatto di McCullin, prodotto originariamente per la copertina di Let It Be, sarà invece usato due anni dopo lo scioglimento del gruppo per il Blue Album, secondo volume di una raccolta di grandi successi. Dimentichiamo per un attimo lo slittamento temporale dell’immagine e concentriamoci sul fatto che essa era stata concepita per il loro ultimo lavoro. Accostiamola alla copertina di Please Please Me: ciò che emerge, è che l’inizio e la fine dell’avventura beatlesiana sono visivamente segnate da due riprese “gemelle”. L’intero percorso dei Beatles è riassunto e sbarrato da un dittico fotografico, da due immagini coincidenti che aprono e chiudono un cerchio, negando, proprio in virtù di questa circolarità, ogni finale aperto e ogni ipotesi di prosecuzione.
With the Beatles, A Hard Day’s Night, Beatles for Sale, Help!, Rubber Soul: 1963, 1964 e 1965, ovvero gli anni della fortunata collaborazione con il fotografo Robert Freeman. Ciascuna copertina, squisitamente fotografica, è mirata a ribadire la riconoscibilità della band attraverso immagini in cui non vi è spazio per altri elementi al di fuori dei quattro “ragazzi” (affettuosamente li chiamo così). Nella fissità di una fotografia di gruppo o nell’illusorio movimento offerto da un flusso di fotogrammi, i Beatles diventano progressivamente un’icona, un marchio condiviso, un codice.
E proprio intorno al concetto di codice è costruita la copertina di Help!, copertina in cui i corpi di John, Paul, George e Ringo inviano una richiesta d’aiuto espressa attraverso l’alfabeto semaforico. In realtà ci troviamo di fronte a una mistificazione: le loro posture non corrispondono alle lettere H, E, L, e P, ma a N, U, J e V. Nessun messaggio subliminale in quella scritta priva di senso, solo il ricorso a un espediente compositivo. Mentire attraverso un mezzo vocato alla menzogna qual è la fotografia: un’iperbole, un pleonasmo o semplicemente un divertissement, qualcosa di irresistibilmente beatlesiano, insomma.
Il 1966 segna un profondo cambiamento nella carriera dei Fab Four: la decisione di non esibirsi più dal vivo, di sottrarsi allo sguardo del pubblico, corrisponde a una graduale trasformazione della loro identità, trasformazione che, nel tempo, passerà attraverso al travestimento, al mascheramento e al dissolvimento. La fotografia necessita di una connessione fisica con il suo referente, ma i Beatles ora non vogliono più né essere toccati, né essere osservati senza filtri.
Lo stesso anno, dato non irrilevante, i Beatles conoscono la censura: la Capital Records, in esclusiva per il mercato statunitense, pubblica la raccolta Yesterday and Today, passata alla storia come The Butcher Album. In copertina vi è una fotografia scattata da Robert Whitake per la performance A Somnambulant Adventure in cui quattro componenti della band posano con camici da macellaio tra bambole smembrate e pezzi di carne. Il mercato e il pubblico non sono pronti: la casa discografica si vede costretta a ritirare le copie distribuite e a rimediare incollando un’immagine “rassicurante” su quella precedente.
L’incidente è risolto, ma la strada che conduce a visioni innovative è ormai imboccata. Ecco quindi che nell’artwork di Revolver, artwork con cui l’artista Klaus Voormann si aggiudicherà un Grammy Award, le fotografie dei quattro musicisti non sono che tessere di un mosaico avvolte e inghiottite dalle linee di un disegno, miniature che passano attraverso il foro di un imbuto per esser risputate fuori in forme inedite.
Come dire, i Beatles sono morti, viva i Beatles! L’anno successivo, ne daranno il triste/lieto annuncio i personaggi convenuti sulla cover di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
L’immagine, realizzata su indicazioni di Paul McCartney da Peter Blake e Jann Haworth e di nuovo vincitrice di un Grammy, rimanda a due modelli storici piuttosto noti: la serie di ritratti in preparazione del dipinto dedicato ai membri della Libera Chiesa di Scozia di Hill & Adamson e il Pantheon Nadar. Essa presta inoltre il fianco a una riflessione sulla messa in scena, il fotomontaggio, perfino la natura morta (notevole, a questo proposito, il nome del gruppo e il basso di McCartney riprodotti con crisantemi e altri fiori), ma, soprattutto, amplifica e stratifica il concetto di autorappresentazione. I Beatles vi compaiono due volte: nella loro veste – anzi, nel loro travestimento – attuale e nel loro aspetto degli esordi, icone fra le icone, in forma di simulacro esposto al museo di Madame Tussaud, doppiamente tassidermizzati dalla cera e dalla fotografia.
Anche grazie alla fotografia, i quattro musicisti avviano dunque un processo di riscrittura della propria identità, processo senza limiti, teso al confine estremo della metamorfosi. Così, dopo aver riposto nell’armadio le divise di Sgt Pepper, essi ricompaiono in versione zoomorfa sulla copertina del doppio EP Magical Mystery Tour, per nulla provati dall’aver definitivamente annullato la loro fisionomia.
L’esuberanza immaginifica del 1967 subisce un brusco arresto l’anno successivo, con The Beatles, meglio conosciuto come White Album.
Il White Album, con la sua copertina monocroma e la scritta in rilievo, sembra non lasciare spazio a considerazioni fotografiche. E invece non è così, poiché, al suo interno, sono inseriti quattro ritratti scattati da Richard Avedon e un poster su cui campeggiano, recto e verso, i testi delle canzoni corredati di un collage di scatti piuttosto eterogenei.
Soffermiamoci sui ritratti: quattro primi piani, quattro oggetti. Per la prima volta i Beatles sono scissi ed è proprio la fotografia a dividerli. Il loro lavoro più solistico, prima ancora che dalla musica è sancito da quei ritratti che si estraggono insieme ai vinili. John, Paul, George e Ringo ravvisano l’urgenza di recuperare la propria individualità anche mediante il recupero dei propri tratti somatici. Nessun espediente e nessun travestimento potranno ormai reinventare un gruppo che si sta fatalmente avviando allo scioglimento.
Tornando a quel percorso circolare a cui ho accennato righe sopra, gli ultimi album dei Beatles, fatta eccezione per Yellow Submarine, considerato a ragione una colonna sonora più che un vero e proprio lavoro, sono illustrati secondo modelli meno complessi e più affini, in sostanza al periodo ‘62-’65.
In Let it be, registrato prima di Abbey Road, ma pubblicato successivamente, la fotografia gioca un ruolo preponderante, poiché al vinile è abbinato un album formato A4 stampato su carta patinata e contenente un esaustivo reportage realizzato da Ethan Russel, reportage da cui provengono le quattro immagini riportate in copertina. Ciò nonostante, ai fini di questo articolo, Let it Be risulta il “prodotto” meno interessante: non vi scorgo – e me ne assumo la responsabilità – spunti che mi permettano di penetrare in maniera più sottile il fotografico, nulla che sia al contempo e inimitabilmente fotografico e beatlesiano.
Diverso il discorso per la cover di Abbey Road, un vero “colpo di coda”: la mattina dell’8 agosto 1969, intorno alle 11, il fotografo Iain McMillan, scatta sei fotografie dei Beatles intenti ad attraversare le strisce pedonali della strada su cui si affacciano gli studi di registrazione. Le riprese durano poco più di dieci minuti, la scelta ricadrà sul quinto fotogramma. Il risultato? Una sorta di foto ricordo, l’ultima in cui i quattro musicisti compaiono insieme in un’inquadratura: talmente (e finalmente) “accessibile” da diventare un cliché per milioni di turisti non necessariamente beatlesmaniaci.
Sul sito abbeyroad.com, tramite una webcam, oggi è possibile vedere e condividere le fotografie scattate in tempo reale sulla segnaletica orizzontale più famosa al mondo. Essere beatle una volta nella vita… «Io sono lui come tu sei lui come tu sei me e noi siamo tutti insieme» (3), canta Lennon in I’m the Walrus. Ed è attraverso la fotografia che si compie la metamorfosi collettiva: del resto, quale altro mezzo avrebbe saputo interpretare meglio il trionfo del pop?
(1) I read the news today oh boy/ About a lucky man who made the grade/ And though the news was rather sad/ Well, I just had to laugh/ I saw the photograph/ He blew his mind out in a car/ He didn’t notice that the lights had changed/ A crowd of people stood and stared/ They’d seen his face before/ Nobody was really sure/If he was from the House of Lords.
(2) In Penny Lane there is a barber showing photographs / Of every head he’s had the pleasure to know
(3) I am he as you are he as you are me and we are all together
Riporto, nella loro forma pressoché originale, gli appunti scaturiti da un periodo di insonnia durato circa quindici giorni. Queste annotazioni avrebbero dovuto trasformarsi in un articolo, ma, dopo averle rilette più volte, considerato anche il carattere diaristico di un blog, ho preferito lasciarle così, scabre, disordinate e sospese come le notti che ho vissuto.
2 aprile, impossibile dormire, tisana + sigaretta.
Cerco di distrarmi.
Buio – notte – fotografia. Potrebbe essere un’idea…
3 aprile, ore 2,35, sigaretta [Incipit] – Yves Bonnefoy, in Poesia e fotografia, prende in prestito un racconto pubblicato da Maupassant nel 1887 e intitolato La notte, per creare un parallelo tra l’esordio della fotografia e l’utilizzo dell’illuminazione artificiale in alcune zone di Parigi. Scrive Bonnefoy che, tale utilizzo, «influisce sicuramente in modo diretto sulla nostra relazione col mondo, sulla nostra inquietudine in sua presenza, poiché si contrappone a quella notte che l’immagine – l’immagine tradizionale – ha sempre avuto la funzione di tenere a distanza […]».
Città illuminate come palestre per generazioni di fotografi.
Le innovazioni tecnologiche del Novecento spalancarono le porte alla fotografia notturna, permettendo una sorta di inebriamento sperimentale collettivo. Esempio: le strabilianti autocromie che Léon Gimpel, nel 1925, dedicò alle insegne accese della ville lumière.
4 aprile, ore 3,14, sigaretta. [Flaneur e topografi: da sviluppare] – L’impiego dell’elettricità in contesto urbano generò immagini ormai iconiche, imprescindibili dalla storia della fotografia. Basti pensare, per la felicità di tutti i flâneur, ai lampioni di Brassaï sotto cui si radunava un’umanità varia e dolente o, per la soddisfazione degli innumerevoli topografi, ai neon dei nuovi paesaggisti americani sotto cui regnava la desolazione perturbante delle periferie.
6 aprile, ore 5,27, sigaretta + tisana. [Come nel romanzo di Fruttero & Lucentini: Quid noctis? A che punto è la notte?…]
I campioni degli appunti precedenti riscrivono e descrivono una notte che “sputa fuori”, ben lontana da quell’oscurità che – naturalmente e retoricamente – “inghiotte” tutto ciò che avvolge.
Allora mi chiedo: quando e in quale maniera la fotografia ha tentato o è riuscita a restituire l’«immagine tradizionale» della notte a cui fa riferimento Bonnefoy?
Questione intricata e perciò intrigante che poggia su una considerazione incontrovertibile: la fotografia è costituita di luce, mentre la notte, la notte naturale per intenderci, è permeata dal buio.
Ciò premesso, non posso comunque dimenticare che, per “temperamento”, la fotografia ha sempre tentato, più o meno maldestramente, di abbattere i propri limiti [tornare sull’argomento].
7 aprile, ore 2,15, gatto in braccio. [La fotografia che aggira gli ostacoli – un cenno] – Sul finire dell’Ottocento, quando ancora apparecchiature e materiali sensibili non consentivano riprese soddisfacenti, ecco comparire i finti notturni creati in camera oscura da Gioacchino Altobelli, romano o da Carlo Naya, vercellese di nascita (Tronzano) e veneziano di adozione.
8 aprile, ore 2,54, guardo fuori dal bovindo, passano macchine…strascichi del sabato sera. [Prosecuzione nota precedente] – Neppure i pittorialisti si sottrassero a questo genere di sperimentazione.
Di regola è Alfred Stieglitz a esser considerato il capofila dei “nottambuli”, ma, le sue immagini, pur se magistrali, sono in ogni caso collocabili entro l’indagine “luministico-urbana” che ho già menzionato.
Ritengo quindi più funzionale, in questo contesto, chiamare in causa l’arcinota fotografia The Pond Moonlight scattata da Steichen nel 1904. Debbo ammettere che, per quanto essa sia significativa, un po’ mi costa sacrificare in suo onore The Flatiron Evening (1906), altra immagine crepuscolare realizzata dello stesso autore con cui ho, da sempre, un forte e inspiegabile legame emotivo.
9 aprile, ore 4,08, sigaretta + tisana [Notti astronomiche e pionieri – punto da sviluppare] – Fotografia astronomica, fotografia fortemente connessa all’osservazione notturna e decisamente in anticipo rispetto alle indagini di carattere artistico/autoriale. Già nel 1839, anno della presentazione del dagherrotipo all’Académie des sciences, il deputato François Arago valutò la possibilità di redigere una cartografia fotografica del nostro satellite.
Due esempi, di cui uno “nostrano”: nel 1857, Padre Angelo Secchi fotografò la luna e realizzò due stampe all’albumina oggi custodite nella Fototeca Panizzi di Reggio Emilia. Nel 1865, Lewis Rutherfurd eseguì una fotografia notturna e lunare grazie all’uso di un cannocchiale con apertura 11 ¼ pollici e fuoco 14 piedi (poi stampata con procedimento a carbone).
10 aprile, 3,12, gatto in braccio. [Off camera/1] – Pionieri, astronomi, pittorialisti, flâneur o topografi fin qui evocati sono legati fra loro da un fil rouge, ovvero quello di aver praticato la fotografia servendosi di una fotocamera. [Lasciare di proposito la fotografia off camera verso la fine dell’articolo. All’interno del mio ragionamento, ritengo che essa rivesta un ruolo di primaria importanza materiale e concettuale].
Sganciarsi da una strumentazione che poggia il suo funzionamento sulle basi di una forma prospettico-simbolica (Panofsky docet), significa infatti recuperare un rapporto più naturale con ciò che accade in presenza e in assenza di luce e significa pure riappropriarsi di tutto quell’apparato sensoriale che va acutizzandosi nelle ore notturne.
Per illustrare meglio questo pensiero, è bene riportare una dichiarazione di Jiří Šigut, artista ceco che, nel 1996, realizzò una straordinaria serie off camera, recandosi dopo il tramonto nei boschi per collocare carte fotografiche di grande formato, carte lasciate incustodite sotto l’azione della luce e recuperate dopo diversi giorni: «La parte fondamentalmente importante dei miei lavori contemporanei – spiega Šigut – è il mio viaggio serale o notturno nei luoghi dove colloco le carte. Notturno perché le distribuisco nel buio affinché la loro esposizione inizi con l’arrivo dell’alba. È un’esperienza del tutto nuova. Di notte, ho la sensazione di percepire tutto ciò che mi circonda con più intensità».
11 aprile, ore 1,55, sigaretta + tisana. [Off camera/2] – Restando in ambito “off “, spingersi oltre per accennare al fatto che, grazie ai procedimenti ad annerimento diretto, possiamo assistere a un ribaltamento concettuale capace di imprimere sulla fotografia un ulteriore sigillo di ambiguità. Il nero assoluto è infatti ottenuto dalla bruciatura dell’emulsione sensibile, mentre il bianco, al contrario, è ricavato dal posizionamento di oggetti che negano alla luce la possibilità di aggredire i materiali. Nero = luce / Bianco = assenza di luce. Il giorno diventa notte e la notte si trasforma in giorno, provocando uno straniamento totale nel fruitore [sviluppare].
12 aprile, ore 4,44, tisana. [Aspetto popolare e kitsch dell’immagine fotografica – solo un accenno] – Negli anni ottanta, quando essere in vacanza significava per forza esser più simpatici, furono immesse sul mercato delle cartoline completamente nere o oscurate che fornivano una versione by night della località turistica.
Infondo, questi oggetti senza alcuna pretesa se non quella di abbozzare uno scherzo, avevano involontariamente riportato la questione all’origine, declinandola in chiave contemporanea e anti-romantica.
La notte tornava a esser tenebra e a riconquistarsi la sua dose di incomunicabilità e mistero.
Saluti e baci.
ps. Il 13 aprile sono partita per trascorrere qualche giorno al mare. E ho ricominciato a dormire.
Vi sarete accorti quanto mi piaccia partire da lontano per afferrare un concetto e proporre una riflessione. Ecco, oggi, il mio “viaggio” inizierà da uno dei luoghi che ho più amato: l’Islanda.
Tempo fa, leggendo i saggi di Jeorge Louis Borges contenuti nella raccolta Storia dell’eternità (ed. Adelphi, 1997), appresi dell’esistenza delle kenningar islandesi, ovvero, per citare il poeta e scrittore argentino, di quelle metafore o «formule enigmatiche» che rappresentano il «primo deliberato piacere verbale di una letteratura istintiva”. Fu Snorri Sturluson – identificato da Borges quale «noto storico, archeologo, edificatore di terme, geneaologista, presidente di un’assemblea, duplice traditore, decapitato e fantasma» – a fornire un’iniziale compilazione delle bizzarre figure retoriche di cui traboccano i poemi epici scaturiti da crepacci e vulcani.
Riporto alcuni esempi, estrapolandoli qua e là: il braccio è definito “gamba della spalla”, il cielo diventa la “tazza dei venti”, il cuore la “dura ghianda del pensiero”, il mare “tetto della balena” o “prato dei gabbiani”, il petto “dimora delle risate” e così via. Insomma, un acrobatico tripudio di fantasia che merita di esser conosciuto.
Fatto sta che, in virtù di un abbinamento che riconosco essere azzardato, le kenningar mi rimandano ogni volta ai titoli posti a corredo di certe fotografie d’inizio Novecento.
Uno fra tutti? Candida brina mesta regina, titolo che il fotografo torinese Guglielmo Oliaro diede a un suo paesaggio premiato nel 1907 dalla Società Fotografica Subalpina e titolo, fra l’altro, di uno dei capitoli del libro «La Fotografia Artistica» 1904 – 1917 / Visione italiana e modernità (ed. Bollati Boringhieri, 1990), scritto dal compianto Paolo Costantini.
Candida brina mesta regina, dunque. A qualcuno vien da sorridere nel leggerlo? Io non lo farei. Detto questo, non voglio sostenere che in un secolo poco sia cambiato, ma certo ancora molto «s’ha da fare» in materia di titolazione. Si sa che la lingua italiana, contrariamente all’idioma islandese mai variato nel corso dei secoli, è duttile e sensibile ai cambiamenti e alle colonizzazioni. Tuttavia, nel nostro Paese, gli infervorati rigurgiti di contemporaneità non si sono dimostrati impermeabili all’oleografia o al provincialismo.
Intanto, anche se – e sottolineo se – un titolo evocativo funzionasse per un’intera serie, difficilmente la stessa cosa varrebbe per le singole fotografie. Non dovremmo mai dimenticarci, infatti, che ciò che è contenuto tra i bordi di un’inquadratura è, in buona sostanza, ciò che ci serve: non abbiamo alcun bisogno di invocare ectoplasmatiche presenze dall’aldilà del fuori campo, non tanto visivo quanto concettuale.
Una rondine non fa primavera, un anziano non fa solitudine, per intenderci.
Vogliamo commentare i titoli in inglese? Beh, certo i photographer, hanno “acca” da vendere, un magazzino pieno, mi vien da pensare. Invece, chi si occupa di project ha i serbatoi colmi di “i lunghe”.
Capisco, o mi sforzo di capire, ma non sempre l’ammmerica (sì, con tre “emme” e lo zio miliardario pronto a “sganciare” l’eredità) è lì ad aspettarci e allora, forse, meglio non ammalarsi di entusiasmo. Meglio non esser né affrettati, né affettati. Meglio pensare. Pensare a chi è diretto un lavoro, a chi lo guarderà realmente, a chi dovrà interpretarlo proprio a cominciare dal titolo. Amiamo giocare con le lingue? Facciamolo con tutte. Usiamole, quando serve, ma non limitiamoci a una. Oggi inglesi, domani italiani, poi francesi, greci e giapponesi, cittadini del mondo intero. Non vogliamo rinunciare a essere international? Bene, anzi giusto: abbiamo la possibilità di creare siti bilingue, accessibili tanto ai nostri connazionali quanto ai nostri estimatori stranieri.
Già che ci siamo, ricordiamoci, inoltre, che Senza titolo non è una scorciatoia, ma un titolo a tutti gli effetti e che contiene, pertanto, un’indicazione ben precisa per il fruitore.
Non dimentichiamo, neppure, che un titolo non è una didascalia, ma è una parte di essa, insieme con il nome e cognome dell’autore, il luogo e la data di produzione.
Non vi ho convinti? Pazienza. Per tornare alle kenningar e concludere, io, con “la mela del petto” (1) e fuori dalle “rocce della parola” (2), vi ho invitato a usare la “rupe delle spalle” (3) . Alla peggio, leggendo l’ennesimo artificio linguistico, esclamerò: che “foresta del mento” (4)!