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E lucean le stelle

© Stefano Ghesini Salvadori, "Non tutta la meraviglia..." [particolare dell'installazione a cielo], 2017
© Stefano Ghesini Salvadori, “Non tutta la meraviglia…” [particolare dell’installazione a cielo], 2017

«Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell’umanità», queste le parole pronunciate dallo studioso e storico dell’arte Aby Warburg, durante la sua straordinaria conferenza sul Rituale del serpente, tenuta nel 1923 per un pubblico non specializzato, formato dai medici e dai pazienti della casa di cura “Kreuzlingen”.
Scrutare il “soffitto” della nostra ideale «casa-universo», altra splendida definizione warburghiana, è pedagogico e salvifico: ci educa all’attesa e alla misurazione delle distanze. Ci predispone alla scoperta e ci rende permeabili al senso di meraviglia da essa generata.
Il cielo, maiuscolo o minuscolo che lo si intenda, è lo schermo su cui proiettiamo il nostro mondo scientifico e fantastico. Dal cielo, minuscolo o maiuscolo che lo si intenda, riceviamo segnali che ci orientano nella ricerca sulla nostra origine, fisica e spirituale.
Torno, per chiarire meglio, a una seconda frase contenuta nell’intervento di Warburg: «La siccità ci insegna a fare incantesimi e preghiere». La pioggia non cade da settimane, l’uomo è impotente di fronte a un fenomeno meteorologico vitale, ma che tarda ad arrivare. È durante un’attesa tanto sfinente che il cielo si popola di dei. Di dei che chiedono d’esser nominati, rappresentati, adattati alle forme di vita che abitano la Terra. L’horror vacui si placa con la proliferazione di immagini e parole. Come elettricità in un cumulonembo, la volta celeste si carica progressivamente di simbologia e sacralità e si scarica infine al suolo abbattendo distanze fisicamente e psicologicamente incommensurabili.
La storia delle arti visive ci svela quanto vasto sia il repertorio iconografico affidato al cielo e da esso restituito. Sopra le teste dei Nativi Americani facevano tana aquile e serpenti, l’Empireo bizantino e medievale traboccava d’oro,  l’atmosfera rinascimentale riammetteva l’azzurro, le nuvole e i miti classici sfrattati dal cristianesimo. Livido, spiraliforme e gonfio di visioni estatiche era il cielo barocco rappresentato nelle chiese, mentre limpido e giocoso quello che sfondava le pareti dei palazzi, attraverso strabilianti trompe l’oeil. Gli illuministi volgevano lo sguardo verso l’alto con occhio “telescopico”, mentre i romantici declinavano i loro sentimenti “astrali” con la meteorologia.
Neppure l’avvento  deflagrante della fotografia riuscì a scalfire il nostro rapporto arcaico con il cielo.
L’asettica riproduzione fotografica ottocentesca dei corpi celesti non poteva esaurire una vicenda iconografica lunga quanto l’uomo.  Trasformare l’invisibile in qualcosa di visibile e permanente non bastava. Erano altre le distanze che  dovevano essere accorciate, anzi abbattute. Lo dimostrano alcuni esempi illustri. Tra il 1925 e il 1934  Alfred Stieglitz, con i suoi  Equivalents, consegnò al cielo il concetto stesso di fotografia, stabilendo, come scrive Molly Nesbit «un ponte tra la forma e l’emozione».

© Alfred Stieglitz, dalla serie "Equivalents", 1925 - 1934
© Alfred Stieglitz, dalla serie “Equivalents”, 1925 – 1934

Quarant’anni dopo fu Luigi Ghirri, con ∞ Infinito, a proseguire e ampliare ab libitum l’intuizione filologica di Stieglitz, accordando le frequenze spaziali con la poetica di Pasolini e  Dylan.

© Luigi Ghirri, “∞ Infinito”, [particolare], 1974
Nel 1993, il cielo forniva a  Joan Fontcuberta gli anticorpi per uno dei suoi vaccini visivi intitolato, appunto, Costellazioni: «l’estrema eleganza della creazione», per usare le parole dell’autore, coniugata con l’«egemonia della visione tecnoscientifica»,  permisero al fotografo catalano di trasformare l’«impronta equivoca» di insetti e altri piccoli detriti accumulati sul parabrezza della sua automobile in una visione cosmica mistificata ma condivisa e perciò credibile.

© Joan Fontcuberta, "Costellazioni", 1993
© Joan Fontcuberta, “Costellazioni”, 1993

Spostiamoci in Giappone, in un Oriente contemporaneo, ma ancora – e felicemente  –  in grado di guardare a una tradizione pittorica che assegnava al Cielo (天) la capacità di avvolgere e animare «il paesaggio per mezzo dei venti e delle nuvole», come scriveva Shitao tra il 1710 e il 1717 nei Discorsi sulla pittura. Arriviamo fino al 2008, quando, con Lightning Fields, titolo ripreso da una straordinaria installazione di Walter De Maria del 1977, Hiroshi Sugimoto, in un lavoro che potremmo definire “para-meteorologico”, fissava e ingabbiava tra i bordi di un’immagine gli effetti di una scarica elettrica sui materiali fotosensibili, rendendo un omaggio critico ai pionieri della scienza e della tecnica, fra cui si annoverano pure coloro che misero a punto i primi procedimenti fotografici.

© Hiroshi Sugimoto, "Lightning Fields", 2008
© Hiroshi Sugimoto, dalla serie “Lightning Fields”, 2008

Seguendo un moto orbitale, i fulmini artificiali  di Sugimoto ci riconducono nuovamente ad Aby Warburg. Nelle frasi conclusive della sua dissertazione, dedicata proprio al fulmine/serpente, l’intellettuale tedesco, prendendo a campione  lo studio e il controllo del cosmo e dei fenomeni atmosferici, ci chiede di non sacrificare,  in nome di un progresso tecnologico assorbito passivamente,  il patrimonio immaginifico che l’uomo ha costruito fin dalla preistoria. «Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».
Non smettiamo di interrogarci, dunque e – mentre tentiamo di rappresentarlo – domandiamoci quanto il cielo stellato sia sopra o dentro di noi. In nome di una riflessione seria, sono certa che anche Kant ci perdonerà.

L’appello

Doris Day mentre interpreta il ruolo di una maestra
Doris Day mentre interpreta il ruolo di una maestra

Ermanno Bencivenga, ne il suo Il bene e il bello. Etica dell’immagine (ed. Il Saggiatore, 2015), scrive: «Non tutte le cose ci sono presenti e non tutte le cose ci sono assenti (…) Nel mio studio mentre scrivo, non ci sono pipistrelli, non c’è una scala a pioli, non c’è un mio lontano cugino che vive a Roma, ma sarebbe irragionevole dire che queste cose, animali o persone sono assenti. (…) Analogamente, sono presenti lo schermo e la tastiera del computer, lo sgabello su cui allungo i piedi e gli appunti dai quali cerco ispirazione; non sono presenti (anche se innegabilmente ci sono) le centinaia di libri che sono alle mie spalle (se uno mi servisse diventerebbe subito presente), i quadri alle pareti (cui sono talmente abituato che ormai neppure più li vedo) e i ragnetti che, ne sono sicuro, prosperano negli angoli. Presenza e assenza, insomma, non sono condizioni spaziali, ma spirituali».
Ora, questa riflessione, intrigante oltre che interessante, ritengo meriti di essere trasposta anche sul piano squisitamente fotografico.
La fotografia, si sa, ha dei bordi e le informazioni che essa fornisce al fruitore sono tutte contenute entro i margini che la definiscono. Le porzioni di mondo escluse dall’inquadratura sono perdute per sempre e a nulla valgono gli ingenui tentativi di ricostruirle a parole. Chi guarda, legittimamente, basa le proprie impressioni e valutazioni su ciò che ha davanti agli occhi, non su ciò che avrebbe potuto o voluto vedere.
È altrettanto assodato, come ci insegnano ieri la storia e oggi i social, che molte fotografie, per motivi essenzialmente politici o religioso/moralistici, hanno subito, al loro interno, vere e proprie epurazioni o mascherature: note sono, in certe immagini di gruppo, le vicende di personaggi fatti “sparire” perché invisi ai regimi. Ormai tristemente familiari, in immagini di diversa natura, sono la copertura o la pixelatura di specifiche parti anatomiche ritenute un’offesa al comune senso del pudore. In entrambi i casi, le rimozioni che avrebbero dovuto determinare un’assenza hanno, loro malgrado, rafforzato una presenza.  Numerosi e degni di nota, a tale proposito, gli sforzi di autori che, a livello concettuale, hanno lavorato su questo aspetto, cercando, per citare Joan Fontcuberta (di cui consiglio ad hoc la visione di Sputnik), di fornire dei veri e propri “vaccini visivi” a coloro che la fotografia vogliono capirla per davvero e accoglierla anche nelle sue espressioni più contemporanee e ambigue.
Nonostante le due brevi premesse opportune, il senso di questo articolo non ruota né attorno al fuori campo (argomento assai complesso e affascinante di cui già ho scritto in passato e su cui tornerò prossimamente), né alle manipolazioni fotografiche al servizio dei poteri.
Il mio intento è differente: ricondurre il tutto alla pratica, invitando coloro che stanno per scattare una fotografia a ragionare sulle parole di Bencivenga soprariportate e a chiedersi: «cosa, di ciò che sto per inquadrare, mi è presente, ovvero mi serve, e cosa esiste, ma è talmente superfluo, rispetto alle finalità che mi sono posto, da sfuggire al mio sguardo?». Insomma e in parole povere, l’intento è quello di invitare i fotografi a riprendere la scolastica “ritualità” dell’appello.
Non solo: dal momento che un’immagine non si risolve – almeno per quanto mi riguarda – nel momento dello scatto, suggerirei loro di interpellare gli elementi inquadrati anche in un passaggio successivo, quello dell’editing, non facendosi troppi scrupoli nel sacrificare eccedenze (a meno che non si indaghi espressamente sulla nozione di horror vacui, s’intende).
Di norma, procedere per levare è sempre una buona abitudine. Ma cosa? E come? Restiamo entro i bordi e facciamo un esempio, uno solo, sennò sarebbe troppo facile: provate a levare il colore, ove non serve, il bianco e nero già di per sé sottrae una cospicua dose di informazioni.
Adesso considerate i bordi, considerateli non come un limite, ma come uno degli strumenti offerti dalla fotografia. Usateli in piena libertà. Metteteli in relazione dialogica con ciò che racchiudono. Spesso un centimetro può fare la differenza. Tagliate, ove occorre. Non mentireste più di quanto non menta, per sua natura, la fotografia.
Escludendo i lavori che nascono con la fragile pretesa di essere pura documentazione, siete sicuri di dovere alla realtà che riprendete più di quanto non dobbiate a voi stessi?
Il primo nome che deve rispondere all’appello è il vostro, è una questione di consapevolezza. E la propria consapevolezza supera, in termini di valore, il pensiero dei puristi o le mitologie legate alla fotografia. Senza di essa non si è né coerenti, né, aspetto altrettanto grave, credibili.
Centratevi sulla vostra visione e sulle componenti che le sono funzionali. Rimuovete il resto. Solo coì vi manterrete in equilibrio quando critici e spettatori vi daranno spintoni per farvi cadere.