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Revisioni periodiche

 

© Clara Turchi Rose, "Untitled", dalla serie "Photo Album (Memory is a memory, is a memory, is a...)", 2016
© Clara Turchi Rose, “Untitled” dalla serie “Photo Album (Memory is a memory, is a memory, is a…)”, 2016

Nei giorni scorsi ho riletto Il Quartiere di Vasco Pratolini, ripescandolo fra i  miei libri di gioventù. Ricordo che, all’epoca, con l’ingenuità e la presunzione di chi pensava di aver capito, lo relegai tra quei classici che si apprezzavano ma non ci appartenevano.
Nello stesso periodo, come molti miei coetanei, forse in reazione al vacuo edonismo degli anni ottanta, mi esaltavo invece per gli esponenti della beat generation. Ero ammaliata dalle loro storie di ribellione, senza concentrarmi sul vero elemento dirompente: la scrittura.
Da giovanissimi, si vive  – o ci si illude di vivere  – di “prepotenza”. Si coltivano  ambizioni e contraddizioni. Poi il tempo passa e  – a patto che si faccia un serio lavoro di introspezione  – le cose accadono, cambiano e si ribaltano. Per citare un esempio, I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, romanzo a cui appendevo i vagheggiamenti di un’esistenza scapestrata, adesso risuona come un’eco lontana, mentre Il Quartiere mi parla così da vicino da spingermi alla commozione.
Intendiamoci: i grandi restano tali e Kerouac non si tocca. Solo che ora amo più la sua poesia – in primis gli haiku/pops – della prosa. In età adulta, insomma, si è portati a considerare con tenerezza non certo alcune opere, quanto l’adesione ardente con cui le si approcciava e  – parallelamente – si è indulgenti nel ripensare alle recensioni sbrigative  con cui si “liquidavano” capolavori affrontati senza alcuna struttura.
Va da sé che quel che vale per la letteratura, vale in egual misura per la musica o per il cinema.
Quindi, appurato che  i mutamenti dei nostri paradigmi espressivo/esistenziali coinvolgono tutti i linguaggi da cui siamo istintivamente attratti,  è logico far rientrare anche la fotografia in un analogo sistema di  revisioni periodiche.
Prima di proseguire, onde evitare fraintendimenti, è necessario che io faccia una precisazione: so bene che, per chi fa il mio lavoro, è d’obbligo mantenere una distanza emotiva nei confronti della fotografia che ci viene sottoposta e su cui si è chiamati a riflettere. Ma ciò non esclude che  la passione da cui questa professione ha preso forma, continui a riflettersi pure su un piano privato e in continuo svolgimento. Ritengo dunque decisamente salutare abituarsi a prendere un diverso tipo di distanza: quella da noi stessi. È su di noi che occorre applicare senza sconti tutta la strumentazione critica di cui siamo dotati, per comprendere quando e come la storia delle immagini abbia intersecato la nostra vicenda personale, rintracciando presenze rassicuranti, abbandoni , ritorni e nuovi incontri.
Perché se non siamo in grado di smarcarci da noi stessi, di collocare i cambiamenti del nostro rapporto con la fotografia in un’ottica fisiologicamente e – oserei dire – scientificamente evolutiva, come possiamo arrogarci il diritto non solo di valutare il lavoro degli altri, ma soprattutto di spronarli a un miglioramento e a una progressione costanti?
Più di ogni mio ragionamento, a chiarire quanto l’età non sia solo un fattore anagrafico ma un “dispositivo” con cui misurare le  oscillazioni a cui ho accennato sopra, interviene la lucida e  definitiva frase di Edward Weston, riportata in esergo ai suoi diari: «Ho già scritto la mia introduzione. Eccola: com’ero giovane. Questo comprende tutto».
Giunti fino a qui, potreste anche fermarvi alle  parole esaustive di Weston. Di certo non mi offenderei. Tuttavia questo è un blog in cui mi concedo riflessioni individuali – a tratti diaristiche – e non  voglio pertanto privarmi del piacere di condividere, con chi avrà la pazienza di leggermi, alcune  brevi e sparse riflessioni che mi riguardano.
Prenderò a campione tre periodi topici: l’infanzia, i diciott’anni e l’avvio della professione.
Quand’ero piccina, a Natale e al compleanno, chiedevo in dono libri fotografici sugli animali, nello specifico sui felini. Quei libri avevano su di me lo stesso effetto dei racconti di Kipling o Salgari: leoni, pantere nere e tigri erano creature troppo belle per restare intrappolate tra i bordi di una fotografia. Puntualmente sconfinavano nella mia fantasia di bambina. Mi dispiacque separarmi da visioni tanto affascinanti e debbo ammettere che non ho mai smesso di scorgere nella fotografia naturalistica un potenziale evocativo in grado di sollevare la polvere depositata su ciò che resta della nostra fanciullezza. Un vero peccato che tanta, non tutta per fortuna, fotografia applicata al mondo naturale sia stata “addomesticata” e resa inespressiva dai parametri troppo rigidi entro cui è costretta. Non escludo, a tal proposito, che la mia refrattarietà al concetto di “genere” in fotografia derivi appunto dal desiderio di abolire il concetto di gabbia in ogni sua declinazione.
Abbandonate le foreste, intorno ai diciott’anni, avvisai i primi e concreti segnali di coscienza civile e politica, segnali che mi condussero dritta verso il reportage. Documentazione, denuncia, libertà…Mai avrei sperato di poter un giorno occuparmi dell’archivio di un fotocronista. E – soprattutto – mai avrei potuto prevedere che, proprio quel lavoro che tuttora m’impegna, mi avrebbe indotto a rivedere alcune entusiastiche posizioni giovanili e  a penetrare, condividendole, le ragioni di un lungo dibatto critico che ha  progressivamente smitizzato la figura del fotogiornalista, senza peraltro svilirla.
A laurea conseguita, l’avvio della professione fu segnata da alcuni autori che mi permisero una maggior presa di coscienza sulla fotografia. Voglio soffermarmi su due nomi che per me, per la mia vicenda personale, stanno alla letteratura come Kerouac e Pratolini: Joan Fontcuberta e Joseph Sudek.
Quando scoprii Herbarium e Fauna segreta, per citare due titoli assai conosciuti, Fontcuberta divenne un punto di riferimento. Ovviamente ancora oggi resta tra i miei preferiti. I suoi “vaccini visivi”, come lui stesso ama definirli, comparsi al momento opportuno nel lungo percorso di decostruzione della credibilità fotografica, rimangono una tappa imprescindibile per chi voglia davvero comprendere la contemporaneità. Ma non dimentichiamo che è da piccoli che ci si vaccina. Gli anticorpi servono per crescere sani. O  – se non del tutto sani – comunque per crescere.
Succede quindi che io continui a riconoscere tutta la forza di quei lavori, ma abbia però esaurito ogni tipo di emotività nell’approcciarmi a essi. Anzi, restando nel tema a me caro degli erbari e inserendo la fotografia in un più complesso sistema artistico-culturale, ho proprio di recente collocato l’erbario fontcubertiano un gradino sotto a La botanica parallela di Leo Lionni, opera grafico – letteraria che, fra l’altro, precede di sette anni il lavoro dell’autore catalano.
Joseph Sudek, com’è intuibile, rappresenta il caso opposto. Anch’esso annoverato tra i miei prediletti, mi colpì in origine per ragioni squisitamente estetiche, ragioni che lo ponevano ai vertici della fotografia praticata in “purezza”.  Allo stato attuale, le immagini di Sudek, in particolare quelle dedicate ai giardini, mi suggeriscono sensazioni differenti. Su di loro proietto una cronica propensione all’eremitismo maturata in anni di lavoro solitario in archivio, un graduale allontanamento dalla mondanità fotografica che si risolve nella mitologia dell’esserci a ogni costo, un grumo mai sciolto di incomunicabilità con il prossimo, un’incessante ricerca su fotografia e botanica che sovente sfocia nell’incanto.
In chiusura, rileggendo quanto ho scritto, non so davvero figurarmi in quali termini questo accenno di “verifiche” possa essere di qualche aiuto o interesse per chi ha avuto la bontà di seguirmi. Forse nessuno. Me ne farò una ragione. Mi preme piuttosto chiarire, specialmente a chi partecipa alle mie proposte curatoriali o didattiche, che non ho certezze da offrire e che per me la fotografia è stata e continuerà a essere qualcosa di felicemente irrisolto.
Un terreno di indagine su cui  germoglieranno i dubbi da raccogliere nelle stagioni a venire.

E lucean le stelle

© Stefano Ghesini Salvadori, "Non tutta la meraviglia..." [particolare dell'installazione a cielo], 2017
© Stefano Ghesini Salvadori, “Non tutta la meraviglia…” [particolare dell’installazione a cielo], 2017

«Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell’umanità», queste le parole pronunciate dallo studioso e storico dell’arte Aby Warburg, durante la sua straordinaria conferenza sul Rituale del serpente, tenuta nel 1923 per un pubblico non specializzato, formato dai medici e dai pazienti della casa di cura “Kreuzlingen”.
Scrutare il “soffitto” della nostra ideale «casa-universo», altra splendida definizione warburghiana, è pedagogico e salvifico: ci educa all’attesa e alla misurazione delle distanze. Ci predispone alla scoperta e ci rende permeabili al senso di meraviglia da essa generata.
Il cielo, maiuscolo o minuscolo che lo si intenda, è lo schermo su cui proiettiamo il nostro mondo scientifico e fantastico. Dal cielo, minuscolo o maiuscolo che lo si intenda, riceviamo segnali che ci orientano nella ricerca sulla nostra origine, fisica e spirituale.
Torno, per chiarire meglio, a una seconda frase contenuta nell’intervento di Warburg: «La siccità ci insegna a fare incantesimi e preghiere». La pioggia non cade da settimane, l’uomo è impotente di fronte a un fenomeno meteorologico vitale, ma che tarda ad arrivare. È durante un’attesa tanto sfinente che il cielo si popola di dei. Di dei che chiedono d’esser nominati, rappresentati, adattati alle forme di vita che abitano la Terra. L’horror vacui si placa con la proliferazione di immagini e parole. Come elettricità in un cumulonembo, la volta celeste si carica progressivamente di simbologia e sacralità e si scarica infine al suolo abbattendo distanze fisicamente e psicologicamente incommensurabili.
La storia delle arti visive ci svela quanto vasto sia il repertorio iconografico affidato al cielo e da esso restituito. Sopra le teste dei Nativi Americani facevano tana aquile e serpenti, l’Empireo bizantino e medievale traboccava d’oro,  l’atmosfera rinascimentale riammetteva l’azzurro, le nuvole e i miti classici sfrattati dal cristianesimo. Livido, spiraliforme e gonfio di visioni estatiche era il cielo barocco rappresentato nelle chiese, mentre limpido e giocoso quello che sfondava le pareti dei palazzi, attraverso strabilianti trompe l’oeil. Gli illuministi volgevano lo sguardo verso l’alto con occhio “telescopico”, mentre i romantici declinavano i loro sentimenti “astrali” con la meteorologia.
Neppure l’avvento  deflagrante della fotografia riuscì a scalfire il nostro rapporto arcaico con il cielo.
L’asettica riproduzione fotografica ottocentesca dei corpi celesti non poteva esaurire una vicenda iconografica lunga quanto l’uomo.  Trasformare l’invisibile in qualcosa di visibile e permanente non bastava. Erano altre le distanze che  dovevano essere accorciate, anzi abbattute. Lo dimostrano alcuni esempi illustri. Tra il 1925 e il 1934  Alfred Stieglitz, con i suoi  Equivalents, consegnò al cielo il concetto stesso di fotografia, stabilendo, come scrive Molly Nesbit «un ponte tra la forma e l’emozione».

© Alfred Stieglitz, dalla serie "Equivalents", 1925 - 1934
© Alfred Stieglitz, dalla serie “Equivalents”, 1925 – 1934

Quarant’anni dopo fu Luigi Ghirri, con ∞ Infinito, a proseguire e ampliare ab libitum l’intuizione filologica di Stieglitz, accordando le frequenze spaziali con la poetica di Pasolini e  Dylan.

© Luigi Ghirri, “∞ Infinito”, [particolare], 1974
Nel 1993, il cielo forniva a  Joan Fontcuberta gli anticorpi per uno dei suoi vaccini visivi intitolato, appunto, Costellazioni: «l’estrema eleganza della creazione», per usare le parole dell’autore, coniugata con l’«egemonia della visione tecnoscientifica»,  permisero al fotografo catalano di trasformare l’«impronta equivoca» di insetti e altri piccoli detriti accumulati sul parabrezza della sua automobile in una visione cosmica mistificata ma condivisa e perciò credibile.

© Joan Fontcuberta, "Costellazioni", 1993
© Joan Fontcuberta, “Costellazioni”, 1993

Spostiamoci in Giappone, in un Oriente contemporaneo, ma ancora – e felicemente  –  in grado di guardare a una tradizione pittorica che assegnava al Cielo (天) la capacità di avvolgere e animare «il paesaggio per mezzo dei venti e delle nuvole», come scriveva Shitao tra il 1710 e il 1717 nei Discorsi sulla pittura. Arriviamo fino al 2008, quando, con Lightning Fields, titolo ripreso da una straordinaria installazione di Walter De Maria del 1977, Hiroshi Sugimoto, in un lavoro che potremmo definire “para-meteorologico”, fissava e ingabbiava tra i bordi di un’immagine gli effetti di una scarica elettrica sui materiali fotosensibili, rendendo un omaggio critico ai pionieri della scienza e della tecnica, fra cui si annoverano pure coloro che misero a punto i primi procedimenti fotografici.

© Hiroshi Sugimoto, "Lightning Fields", 2008
© Hiroshi Sugimoto, dalla serie “Lightning Fields”, 2008

Seguendo un moto orbitale, i fulmini artificiali  di Sugimoto ci riconducono nuovamente ad Aby Warburg. Nelle frasi conclusive della sua dissertazione, dedicata proprio al fulmine/serpente, l’intellettuale tedesco, prendendo a campione  lo studio e il controllo del cosmo e dei fenomeni atmosferici, ci chiede di non sacrificare,  in nome di un progresso tecnologico assorbito passivamente,  il patrimonio immaginifico che l’uomo ha costruito fin dalla preistoria. «Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».
Non smettiamo di interrogarci, dunque e – mentre tentiamo di rappresentarlo – domandiamoci quanto il cielo stellato sia sopra o dentro di noi. In nome di una riflessione seria, sono certa che anche Kant ci perdonerà.

Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.