Gaston Bachelard, ne La poetica dello spazio, introduce il concetto di “estetica del nascosto” o “fenomenologia del nascosto” con questa breve ma acuta osservazione: «un cassetto chiuso è inimmaginabile. Esso può essere solamente pensato. E per noi, il cui compito è descrivere ciò che si immagina prima che sia conosciuto, ciò che si sogna prima di verificarlo, tutti gli armadi sono pieni».
Desidero immeritatamente prendere in prestito le parole scritte dal filosofo francese nel 1957, per applicarle a un aspetto per nulla marginale del fare fotografia o fare arte con la fotografia, come più vi piace. E modulando il suo pensiero sulle mie intenzioni – con sentite scuse ai puristi della fenomenologia – aggiungo che a ogni cassetto o armadio pieno corrispondono una parete, un libro, una pagina web vuoti.
Prima dell’avvento di Internet e dei social, i cassetti erano pieni fotografie o lavori fotografici. Dimenticate o volontariamente tenute sotto chiave, le immagini vivevano lunghi periodi di reclusione, nascoste allo sguardo non solo di un ipotetico pubblico, ma anche del loro stesso autore.
Premetto, onde evitare fraintendimenti, che non credo a chi sostiene di non sentire l’esigenza di mostrare i propri lavori, condannandoli alla clausura perenne. È vero, si fotografa per se stessi, ma è altrettanto vero che la diffusione e il confronto con lo spettatore restano una parte imprescindibile dal percorso espressivo.
Inoltre, ammetto senza remore che grazie ai social ho potuto stabilire contatti umani e professionali ormai irrinunciabili.
Fugato il panegirico dei bei tempi andati, vorrei comunque azzardare una riabilitazione del “cassetto chiuso”, sottolineandone l’utilità.
Non tutto ciò che si produce è subito pronto per essere mostrato. Non tanto poiché potrebbe necessitare di aggiustamenti non percepibili nell’immediato, quanto poiché chi lo ha prodotto potrebbe sentire – più o meno razionalmente – che non è il momento.
Se non si fotografa per commissione, non si è fotogiornalisti o se la simultaneità non è una scelta concettualmente significativa, è salutare – perfino salvifico – non farsi fagocitare da tempi sclerotici e indotti.
Oltre che alle sue fotografie, infatti, un autore dovrebbe corrispondere in egual misura al momento in cui decide di mostrarle: in altre parole, oltre che affannarsi sul dove, è bene che sappia valutare il quando.
Se dunque spazio e tempo sono inscindibili, lo spazio idoneo a preservare le immagini in attesa di un tempo “maturo” potrebbe essere il cassetto.
Giunti fin qui, varrebbe la pena di porsi alcune domande: è più sopportabile non ritrovarsi su pareti, pagine, siti o bacheche facebook o non essere presenti al e nel proprio lavoro? A chi si decide di rendere conto? Agli altri – chi? – o a se stessi?
L’attesa non è necessariamente sinonimo di occasione perduta. Forse ciò che manca ai lavori che non sono pronti, è davvero l’azione del tempo. Di un tempo che, depositandosi, conferisca struttura e – perché no? – plus valore estetico a ciò che è ancora debole, non completamente formato. Penso che un distacco temporaneo tra il fotografo e le sue fotografie sia funzionale a entrambi e permetta loro in qualche modo di ritrovarsi, di riavviare una conversazione condotta con maggiore consapevolezza.
A tale proposito mi pare particolarmente incisiva una dichiarazione rilasciata da Mario Giacomelli a Francesca Vitale per la rubrica radiofonica L’occhio magico mandata in onda su Rai Radio 3 il 20 gennaio del 2000: «L’immagine prende a vivere dal momento che tu la interroghi, che non è vero che è morta, lei è muta, lì, ha bisogno di dialogare con te ma ha bisogno che tu dialoghi con lei, perché lei ha un’altra educazione cioè, è lì, attenta, ha aspettato chissà quanti anni la tua attenzione e comincia a vivere dal momento che tu la interroghi».
Ora, essendo refrattaria alle regole e ancor più ai dogmi, non voglio certo sostenere che tutto necessiti di una lunga sedimentazione. Ma, ribadisco e semplifico, vi sono neonati che hanno bisogno di un periodo di incubazione per esser certi di sopravvivere nel mondo esterno.
Penso infine che questa breve riflessione non debba limitarsi agli autori, ma possa essere estesa pure a coloro che, come me, di fotografia si occupano e che sembrano essere perennemente in preda a una frenesia di cui mi sfugge il senso.
Sarà certo un mio limite, ma reputo che non potersi più appoggiare alla citazione di Bachelard, ovvero non riuscire più a immaginare armadi pieni, caldeggiando invece un’interrotta condivisione di immagini in tempo reale, sottragga fascinazione e – soprattutto – sostanza a ciò che sfila sotto i nostri occhi. Se, come sosteneva Giacomelli, pur con un’intenzione quasi animistica che non mi appartiene, un’immagine sa attendere anni in cambio di attenzione, allora anche chi è chiamato a valutarla deve accettare tempi più dilatati, adeguandosi al ritmo produttivo dell’autore, senza mai forzarlo.
La fretta dettata dalla smania di visibilità, sia essa appartenente a un autore o a un curatore, non mi convinceva in passato, quand’era assai rara, né mi convince ora.
Provo a comprendere, ma alla fine mi ritrovo sempre a fare i conti con lo stesso quesito: cosa mi posso aspettare da chi non sa aspettare?
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Nobel oblige
Premessa: l’articolo di oggi è un divertissement.
Allora, la questione è: se la fotografia è (anche) scrittura e si fa leggere, esistono fotografi che potrebbero concorrere al premio Nobel per la letteratura?
Tentiamo subito di determinare due serbatori stilistici entro cui pescare le nomination: racconto, quindi prosa – e poesia.
Nella prima categoria chi ci potremmo mettere? Iniziamo da due grandi reportagisti, due “Bob”, visto che il nome ultimamente va alla grande in quel di Stoccolma: Robert Capa e Robert Frank.
Se ricordiamo che Alfred Nobel fu l’inventore della dinamite, allora Bob Capa, al secolo Endre Ernő Friedmann, avrebbe doppiamente diritto a una candidatura postuma, dal momento che morì esplodendo, in servizio ad Hanoi, dopo aver poggiato il piede su una mina. Le sue immagini della guerra civile spagnola o dello sbarco Anglo-Americano in Sicilia o in Normandia, per citare qualche esempio, non equivalgono e superano forse intere pagine redatte da penne illustri sull’argomento?
E che dire di “Bob” Frank con Les Américains (1958)? Chi meglio di lui ha saputo narrare un viaggio in una terra tanto celebrata? Innegabile che la scrittura nella sua opera abbia avuto un peso specifico non sottovalutabile, peso rincarato dalle forti influenze che il fotografo subì in quegli anni, stringendo amicizie con gli esponenti della Beat Generation e in particolare con Jack Kerouac (cui si deve la prefazione a Les Americains, appunto).
Stesso discorso può valere per William Eugene Smith o James Nachtwey, accomunati da una vena estetica da cui la letteratura non è certo esente.
Un pensiero lo farei pure sui micro racconti di cronaca di Wegee, cinici e impietosi, perché persino i “cattivi” sanno (de)scrivere bene e vincono premi.
E non dimenticherei gli italiani attenti al concetto di narrazione fotografica. Propongo un nome, uno su tutti, principalmente per ridargli, post mortem, il ruolo che merita: Luigi Crocenzi. Quale perdita per noi, se non fosse mai uscito, nel 1953 Conversazione in Sicilia, primo vero esempio di photo text concepito con Elio Vittorini? Nobel immediato, senza passare dal via!
Vogliamo spostarci a Oriente? Consideriamo Daido Moryama, la sua prosa visuale – chiamiamola così – frammentaria e inquieta, sia in versione monocroma che a colori. Fotografie senza segni di interpunzione. Roba a cui la commissione svedese è abituata: il premiato William Faulkner, in Intruder in the dust (Non si fruga nella polvere – magistralmente tradotto in italiano da Fernanda Pivano), produsse, in preda a un flusso di coscienza, più di venti pagine senza mai metter un punto tra un periodo e l’altro.
E se decidessimo di inserire nella lista dei fantafotonobel un artista concettuale? Bene, allora ci sarebbe posto per Sophie Calle con alcuni lavori specifici, va da sé: in primis con La Filature (1981), diario fotografico corredato di appunti, realizzato dopo aver assunto un detective che la pedinasse e la riprendesse a sua insaputa. O con serie quali Gotham Handbook, Le Régime chromatique, Des Journées entiéres suos le signe du B, du C, du W , pensate, tra il 1994 e il 1998, assieme allo scrittore Paul Auster, scrittore che, fra l’altro, inserì la Calle sotto falso nome tra i protagonisti del suo romanzo Leviatano.
Passiamo alla poesia: direi che le cose qui si complicano un po’, poiché un nesso esplicito con la poesia ci deve essere.
Fosse sufficiente il lirismo intrinseco a certe immagini, allora potrebbero rientrarci, ahimè entrambi postumi, Eugène Atget e Brassaï con lo spleen di cui sono grondanti le loro visioni flanêuristiche di Parigi o il mio amatissimo Joseph Sudek, per anni autorecluso in micro giardini “magici” di cui ha restituito tutto l’incanto.
No, bisogna trovare agganci autentici: autentici quanto i 365 scatti che costituiscono Infinito di Luigi Ghirri, dedicato al neo Nobel Bob Dylan o quanto i lavori di Mario Giacomelli ispirati alle poesie di Cesare Pavese o all’Antologia di Spoon River.
Andando lontano, oltre i confini nazionali non dobbiamo dimenticare l’ascetico Minor White, poeta oltre che fotografo, il quale sovente non concepiva l’immagine avulsa dalla poesia che l’aveva ispirata, e viceversa.
Tanti, inoltre, sono gli autori che hanno voltato lo sguardo a est per indagare la relazione che esiste tra fotografia e haiku: a partire dal “grande vecchio” Alfred Stieglitz, che tentò dichiaratamente di fare immagini singole che funzionassero come le stringate composizioni giapponesi (Apples and Gable, del 1922 ne è un esempio noto e lampante), fino ad Abbas Kiarostami, scomparso da poco, o alla viva e vegeta Rinko Kawauchi, appartenente a una generazione di fotografi nipponici inclini a riprendere visivamente i concetti espressi dalla tradizione elegiaca del loro Paese.
Insomma, volendo basarsi unicamente sul mio elenco soggettivo e incompleto, i criteri per un’assegnazione ci sarebbero tutti. Ma un fotografo difficilmente vincerà un Nobel per la letteratura. E – mi vien da aggiungere – per fortuna. Già esistono appositi riconoscimenti fotografici che si tirano appresso discussioni sterili e infinite.
Io mi sono divertita a immaginarmi una rosa di papabili, poiché penso che i ragionamenti votati alla contaminazione fra la fotografia e le altre forme espressive e fra la scrittura in particolare, siano sempre un buon esercizio.
Il resto, se starete al gioco, lo lascerò alle vostre considerazioni e ai vostri desiderata da fantagiurati.