Comincio subito con una premessa: questo articolo è decisamente meno interessante di altri, poiché racconta del mio modus operandi, argomento che si può legittimamente considerare noioso. Ma una puntualizzazione, ogni tanto, va fatta. E questo, dal momento che è il mio spazio, mi sembra lo spazio adatto. Voglio partire metaforicamente lontano dalla fotografia, per poi tornarci, ça va sans dire.
In collina ho una piccola casa, ereditata dai bisnonni, un buen retiro, che soprannomino propriamente “Schifaguai”, dietro cui si estende un grande prato, che definisco, impropriamente, “il frutteto”.
Impropriamente perché vi crescono alberi piantati dalla mia famiglia più un secolo fa, cespugli di rovo spontanei che producono gran quantità di more e alberelli ancora giovani, messi a dimora da me e mio padre, che solo da qualche stagione ci regalano un paio di frutti al massimo. Insomma, nulla di razionalizzato. Un frutteto semi spontaneo, “all’inglese”, per scherzarci su.
Nel prato, che è proprietà privata, mancano intenzionalmente due elementi: la recinzione e l’orticello.
Non li ho mai voluti. Vero, spesso mi rubano i frutti maturi e gli epiteti con cui commento gli autori del gesto non sono degni di una donna di classe, ma gli alberi sono generosi e producono comunque in abbondanza. Una volta all’anno passano le pecore, che portano disordine e lanuggine, però concimano bene. Sul terreno, i cavalli condotti a spasso dai loro cavalieri, lasciano profonde impronte degli zoccoli. Eppure l’erba continua a crescere, verde e rigogliosa.
Lo stesso vale per il mio lavoro: non ho orticelli da difendere, nessuna recinzione da costruire, nessun muro da alzare. Quindi – come succede piuttosto sovente negli ultimi tempi – anche se “per il mio bene”, non consigliatemi di tenere segreti i miei progetti. Non lo farò mai e provo una sorta di tristezza per chi, “afflitto” da eccessiva circospezione, coltiva la reticenza.
Volete copiarmi? Mi date lo stesso danno di chi mi ruba due fichi maturi. L’albero resta mio, le radici sono profonde, ciò che è destinato a maturare, maturerà ancora. Vi piace spiare ciò che faccio? E perché sbriciare stando ai bordi? Rinunciate a un po’ di voyeurismo e pruderie, entrateci dentro, non ci sono paletti. Concimate pure voi, come le pecore, se vi va. Sentite l’urgenza di criticarmi? Fatelo apertamente, è più dignitoso. Vi ascolterei con attenzione, nessuno è perfetto, potrei migliorare.
Mantengo riserbo unicamente su intuizioni che si presentano come un germoglio fragile di cui non posso prevedere lo sviluppo. Anticiparlo sarebbe un antipatico esercizio narcisistico.
Ciò che invece ha attecchito – secondo il mio parere, ma è delle mie idee che sto scrivendo, dunque posso farlo – non resta né segreto, né esclusivo (aggettivo, quest’ultimo, che mi provoca l’orticaria).
Sono un libro aperto e per natura amo il confronto. Non l’ho mai temuto. Così come non temo un ladro di mele.
Postilla: la foto che correda questo articolo è stata scattata da Mario Tinelli, amico e bravo fotografo, durante una giornata trascorsa con Pierangelo Cavanna e Vittore Fossati alla “Schifaguai”. Ho cucinato per loro frittate di luppolo selvatico, un risotto all’ortica, pancetta e mandorle e una torta farcita con la marmellata fatta da me. Abbiamo bevuto ottimo vino rosso, discusso dei nostri progetti e delle nostre vite. E abbiamo riso molto.