Per onestà intellettuale anticipo subito che questo articolo nasce dopo aver ascoltato la lectio magistralis tenuta da Efrem Raimondi, a Busto Arsizio, giovedì 16 giugno scorso.
Traduco “in soldoni”, se l’ho intesa correttamente, una delle sue frasi di chiusura, che condivido in toto: «Se non hai un’idea non vai da nessuna parte e la tua fotografia non esiste».
La ripropongo volentieri, poiché, su tale principio, è incentrata anche la didattica adottata da me e Stefano Ghesini, nei laboratori individuali o in quelli che conduciamo insieme. C’è una ragione, infatti, se insistiamo sulla parola concettuale, perché l’idea viene prima di tutto. Non solo è il punto di partenza, ma è l’unica partenza auspicabile e intelligente.
Concentriamoci sull’importanza di sapere cos’è per un fotografo fare fotografia e non fare fotografie.
E cominciamo con il distinguere l’idea dalle motivazioni, che spesso sono passeggere. Ce lo ha insegnato Pierre Bourdieu in La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media, pubblicato nel lontano 1965, ma ancora considerato un’acuta e valida analisi sociologica: si fotografa per solitudine, per dire «io c’ero», giusto il tempo necessario per trovare una fidanzata, per avere un ruolo familiare, per sentirsi parte di un microcosmo qual è un circolo di amatori, e via dicendo. Il libro va letto, impossibile condensarlo in poche righe, anzi, per l’accenno frettoloso, mi perdonino i lettori e l’autore, purtroppo scomparso nel 2002.
L’idea dunque, per funzionare, non deve esser effimera, ma inossidabile e connaturata all’autore, deve agire come uno specchio capace di restituirne un’immagine coerente, al di là dei generi e dei mezzi tecnologici che spesso finiscono per trasformarsi in ulteriori gabbie, ove rinchiudersi e proteggersi quando non si hanno gli strumenti sufficienti per poter introiettare ed elaborare liberamente la/le realtà che viviamo e osserviamo.
L’idea, inoltre, continuando a fare le opportune differenziazioni, viene assai prima del progetto. Quest’ultimo, nonostante sia l’architettura di un lavoro, non può sostenerlo senza avere alla base fondamenta solide, rafforzabili nel corso di una vita, ma non intercambiabili, pena l’insanabile crollo di ciò che è stato costruito.
“Progetto” deriva dal latino pro jacere [gettare avanti], espressione che rimanda etimologicamente al vocabolo “proiettile”: è qualcosa che si può lanciare per centrare un bersaglio, ma che non farebbe nemmeno un metro se non ci fosse un essere umano in grado di manovrare un congegno, vantare una buona mira e avere la consapevolezza di cosa colpire.
Quindi non fatevi sconti, fatevene piuttosto una ragione. Se avete bisogno di fotografie, come ne abbiamo bisogno tutti, fatele, ogni motivazione è giustificabile e benvenuta. Prendetele però per ciò che sono e non sentitevi frustrati, ci saranno sempre amici, contatti social e parenti disposti a goderne.
Ma se avete bisogno di fotografia, continuate a sperimentare e farvi guidare dalla vostra idea, abbiatene cura, nutritela. Perché non solo vi appartiene, ma coincide con voi stessi. Amatevi o detestatevi, non importa, ma, dentro a una foto, metteteci ciò che siete. Metteteci il vostro pensiero. Create le vostre visioni. E già che ci siamo, non ritraetevi sdegnosamente se qualcuno vi chiama artisti. La fotografia ha da anni un suo ruolo nel contesto artistico contemporaneo, non nascondiamoci dietro a un dito, lo sancisce perfino la lacunosa – ahinoi! – normativa in fatto di copyright.
Chiamate le cose con il loro nome, con serenità, senza vergogne o spocchie. E – con un gesto di responsabile paternità – alle immagini che scattate, se sono figlie di un’idea autentica, aggiungeteci con orgoglio pure il vostro cognome