Prima stagione: LEGGERE DI FOTOGRAFIA, LEGGENDO D’ALTRO
Conversazioni con autori ed esperti, per conoscere e creare nuovi collegamenti con il fotografico Episodio 1 Marco Introini: il paesaggio tra ascolto e osservazione
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Nei laboratori che da anni tengo in alcune città italiane, inserisco un’ampia sezione teorica dedicata alla storia della fotografia.
Per mia formazione e per ragioni che cercherò di riassumere in questo articolo, l’approfondimento storico-culturale è una parte irrinunciabile dei miei percorsi didattici.
Voglio subito sgombrare il campo da ogni possibile insinuazione o fraintendimento. La mia scelta non è dettata dall’amore per quel nozionismo che trova compimento e compiacimento in una sterile e irritante esibizione di sapere.
No, i motivi stanno altrove.
La storia della fotografia, inserita dialetticamente nella storia delle immagini e contaminata da altre discipline, rappresenta una piattaforma di riflessione sul particolare momento in cui ci si ritrova a fare o trattare la fotografia.
La storia ci racconta il passato per inchiodarci al presente.
E lo fa ribadendo, per qualsiasi periodo preso in esame, la totale immersione degli autori nel loro tempo, tempo che, in grazia o a causa di congiunture irripetibili, ha determinato urgenze, connessioni, mentalità, gusti. È quell’essere dentro ad aver fatto e a fare la differenza, a garantire credibilità e autenticità e a scongiurare le “maniere”.
Guardare a ciò che è stato prodotto ci induce a prendere le distanze piuttosto che ad assorbire passivamente dei modelli. Certo la conoscenza ci permette di attingere a uno sterminato repertorio iconografico e ci dissuade dal rincorrere la chimera dell’originalità a tutti i costi, ma solo un senso critico modulato sul nostro presente può aiutarci a passare dall’imitazione alla citazione.
Perché se è vero – e secondo me lo è – che la fotografia, in qualsivoglia sua applicazione, ha valore unicamente se inserita in un sistema di relazioni e ricadute sociali, allora chi la pratica deve essere in grado di sentirsi parte integrante o disintegrante dell’ambiente e delle circostanze in cui vive e produce.
Ciò non significa togliere peso o fascino alla condizione solipsistica necessaria a ogni autore. Anzi, ciclicamente, come scriveva Ugo Mulas nel 1973 con una lucidità e un’intensità rare, è bene allontanarsi dal mondo per «capire cos’è questo sentirsi soli di fronte al fare, che cos’è non cercare più dei puntelli, non cercare più negli altri la verità, ma trovarla soltanto in se stessi […]».1
L’autore coincide con la sua opera, la inscrive nella sua biografia irriproducibile. Fotografa per se stesso, è legittimo e risaputo. Dopodiché, egli non si limita a parlarsi allo specchio. Si esprime – dal latino exprimere, premere fuori – spreme la propria sostanza in quel fuori che è la contemporaneità, alla ricerca di interlocutori.
Ecco, la storia insegna a sapersi collocare. Mi ripeto: chi ci ha preceduto l’ha fatto. Era immerso nel proprio tempo non tanto perché, banalmente, ne era coevo, ma perché lo determinava, a volte perfino anticipandolo.
Diffido di chi di chi si rilascia l’”auto-patente” di incompreso, sottraendosi a ogni confronto oppure di chi si crogiola nella confort zone di partiti presi anacronistici e ristretti, responsabili, secondo Rosalind Krauss, dell’impaludamento della fotografia.2
Che si decida di imboccare strade affollate o – al contrario – di aprirsi un sentiero, la mappa su cui tracciare il proprio percorso non può che essere una mappa aggiornata in grado di fornire anche le nostre coordinate. Una cartina su cui apporre un segno che indichi: «io sono qui».
Infine, è proprio volgendo lo sguardo alla storia, che si finisce – fatalmente – per smitizzarla, per non assumerla come una disciplina rigida e accademica.
Lo studio della storia non genera incanto, semmai apre al disincanto.
Non c’è un’unica storia della fotografia, vi sono diverse storie, anch’esse figlie di culture che si portano sulle spalle il peso di epurazioni e di celebrazioni indegne.
Del resto, come scrive Georges Didi-Hubermann in Scorze, «la cultura non è la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto “barbare” o “primitive” possano essere». 3
Dove siamo, dunque? Come ci siamo arrivati? Ma, soprattutto, cosa intendiamo fare?
Buon 2018!
1 Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino, 1973 2 Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996 3 Geroges Didi-Hubermann, Scorze, Edizioni Nottetempo, Roma, 2014
«Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell’umanità», queste le parole pronunciate dallo studioso e storico dell’arte Aby Warburg, durante la sua straordinaria conferenza sul Rituale del serpente, tenuta nel 1923 per un pubblico non specializzato, formato dai medici e dai pazienti della casa di cura “Kreuzlingen”.
Scrutare il “soffitto” della nostra ideale «casa-universo», altra splendida definizione warburghiana, è pedagogico e salvifico: ci educa all’attesa e alla misurazione delle distanze. Ci predispone alla scoperta e ci rende permeabili al senso di meraviglia da essa generata.
Il cielo, maiuscolo o minuscolo che lo si intenda, è lo schermo su cui proiettiamo il nostro mondo scientifico e fantastico. Dal cielo, minuscolo o maiuscolo che lo si intenda, riceviamo segnali che ci orientano nella ricerca sulla nostra origine, fisica e spirituale.
Torno, per chiarire meglio, a una seconda frase contenuta nell’intervento di Warburg: «La siccità ci insegna a fare incantesimi e preghiere». La pioggia non cade da settimane, l’uomo è impotente di fronte a un fenomeno meteorologico vitale, ma che tarda ad arrivare. È durante un’attesa tanto sfinente che il cielo si popola di dei. Di dei che chiedono d’esser nominati, rappresentati, adattati alle forme di vita che abitano la Terra. L’horrorvacui si placa con la proliferazione di immagini e parole. Come elettricità in un cumulonembo, la volta celeste si carica progressivamente di simbologia e sacralità e si scarica infine al suolo abbattendo distanze fisicamente e psicologicamente incommensurabili.
La storia delle arti visive ci svela quanto vasto sia il repertorio iconografico affidato al cielo e da esso restituito. Sopra le teste dei Nativi Americani facevano tana aquile e serpenti, l’Empireo bizantino e medievale traboccava d’oro, l’atmosfera rinascimentale riammetteva l’azzurro, le nuvole e i miti classici sfrattati dal cristianesimo. Livido, spiraliforme e gonfio di visioni estatiche era il cielo barocco rappresentato nelle chiese, mentre limpido e giocoso quello che sfondava le pareti dei palazzi, attraverso strabilianti trompe l’oeil. Gli illuministi volgevano lo sguardo verso l’alto con occhio “telescopico”, mentre i romantici declinavano i loro sentimenti “astrali” con la meteorologia.
Neppure l’avvento deflagrante della fotografia riuscì a scalfire il nostro rapporto arcaico con il cielo.
L’asettica riproduzione fotografica ottocentesca dei corpi celesti non poteva esaurire una vicenda iconografica lunga quanto l’uomo. Trasformare l’invisibile in qualcosa di visibile e permanente non bastava. Erano altre le distanze che dovevano essere accorciate, anzi abbattute. Lo dimostrano alcuni esempi illustri. Tra il 1925 e il 1934 Alfred Stieglitz, con i suoi Equivalents, consegnò al cielo il concetto stesso di fotografia, stabilendo, come scrive Molly Nesbit «un ponte tra la forma e l’emozione».
Quarant’anni dopo fu Luigi Ghirri, con ∞ Infinito, a proseguire e ampliare ab libitum l’intuizione filologica di Stieglitz, accordando le frequenze spaziali con la poetica di Pasolini e Dylan.
Nel 1993, il cielo forniva a Joan Fontcuberta gli anticorpi per uno dei suoi vaccini visivi intitolato, appunto, Costellazioni: «l’estrema eleganza della creazione», per usare le parole dell’autore, coniugata con l’«egemonia della visione tecnoscientifica», permisero al fotografo catalano di trasformare l’«impronta equivoca» di insetti e altri piccoli detriti accumulati sul parabrezza della sua automobile in una visione cosmica mistificata ma condivisa e perciò credibile.
Spostiamoci in Giappone, in un Oriente contemporaneo, ma ancora – e felicemente – in grado di guardare a una tradizione pittorica che assegnava al Cielo (天) la capacità di avvolgere e animare «il paesaggio per mezzo dei venti e delle nuvole», come scriveva Shitao tra il 1710 e il 1717 nei Discorsi sulla pittura. Arriviamo fino al 2008, quando, con Lightning Fields, titolo ripreso da una straordinaria installazione di Walter De Maria del 1977, Hiroshi Sugimoto, in un lavoro che potremmo definire “para-meteorologico”, fissava e ingabbiava tra i bordi di un’immagine gli effetti di una scarica elettrica sui materiali fotosensibili, rendendo un omaggio critico ai pionieri della scienza e della tecnica, fra cui si annoverano pure coloro che misero a punto i primi procedimenti fotografici.
Seguendo un moto orbitale, i fulmini artificiali di Sugimoto ci riconducono nuovamente ad Aby Warburg. Nelle frasi conclusive della sua dissertazione, dedicata proprio al fulmine/serpente, l’intellettuale tedesco, prendendo a campione lo studio e il controllo del cosmo e dei fenomeni atmosferici, ci chiede di non sacrificare, in nome di un progresso tecnologico assorbito passivamente, il patrimonio immaginifico che l’uomo ha costruito fin dalla preistoria. «Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».
Non smettiamo di interrogarci, dunque e – mentre tentiamo di rappresentarlo – domandiamoci quanto il cielo stellato sia sopra o dentro di noi. In nome di una riflessione seria, sono certa che anche Kant ci perdonerà.
Vi sono figure di fotografi, all’interno della Storia della Fotografia, che passano quasi inosservate, malgrado la loro straordinarietà. Uomini capaci di grandi fallimenti individuali, che, inconsapevolmente, consegnano materiali di notevole interesse a chi verrà dopo di loro.
Il francese Charles Hippolyte Aubry (1811-1877) è uno di questi e ha tutta la mia simpatia. Un individuo in ritardo sul tempo, innamorato della fotografia senza saperla abbracciare nella maniera giusta, destinato a perdere, a fare sempre la mossa sbagliata.
Aubry era un disegnatore tessile, abile, con un’attività ben avviata: a 53 anni, nel 1864, decise di chiudere l’azienda per costituire, a Parigi, una società di calchi e fotografie di piante e fiori in gesso.
A stregare Charles, come il canto delle sirene, fu indubbiamente l’eco del successo di Adolphe Braun, che un decennio prima, nel 1853, realizzò con fortuna 300 immagini di fiori a servizio dei produttori di stoffe d’arredamento. Braun fu decisamente più oculato del suo esuberante collega nell’uso della fotografia e nella scelta degli amici, spaziando dal paesaggio, alla documentazione, fino al ritratto di corte. Egli fu insomma celebrato quanto una “star”, invitato con le sue nature morte all’Exposition Universelle del 1855, accreditato come primo fotografo ufficiale del Louvre, per citare solo due tra i vari traguardi che ne accrebbero la fama.
Charles no. Charles non era un compiacente. A lui non interessavano vedute, opere d’arte e d’ingegno, personaggi illustri. Il suo era un mondo fatto di tappezzerie, poltrone, tende e divani. Così escogitò l’idea di fotografare campioni floreali e piante irrigidite dalla polvere di gesso. Preparò un elegante album per il Principe Imperiale accompagnato da queste brevi righe, non risparmiando neppure una sottile denuncia sulla scarsa sovvenzione degli istituti d’arte: «Principe, per facilitare lo studio della natura, l’ho colta sul fatto in modo da fornire alle maestranze quei modelli che devono far progredire l’arte industriale messa un po’ a repentaglio dalle esigue finanze delle scuole di disegno».
A che serviva, dieci anni dopo i trionfi dell’introdotto Braun, smerciare quel tipo di lavoro come una novità? A che serviva, inoltre, adottare una tecnica tanto complessa, ovvero la gessificazione, per cogliere sul fatto la natura e congelarne le forme? Bastava la fotografia, come avrebbe ribadito Karl Blossfeldt intorno al 1930. Nessun fiore appassisce tra i bordi di un’immagine.
Non ci arrivò il povero Aubry, rapito dalla sua stessa intemperanza, il quale, l’anno seguente, avendo realizzato 200 stampe senza ottenere una sola commissione, fu costretto a serrar bottega dichiarando fallimento.
Le sue opere, oggi, sono conservate nei musei, ma di lui si parla a margine, poche righe sulle prestigiose storie della Fotografia.
Eppure l’affascinante epopea ottocentesca della fotografia, accanto ai voli in mongolfiera di Nadar l’eclettico e alle immersioni di Loius Boutan il palombaro, passa anche attraverso ingenui sognatori destinati all’insuccesso. Si sviluppa come un romanzo di Jules Verne, come un’avventura fantastica, fatta di eroici comprimari e intrepide ma struggenti comparse, come Aubry, senza i quali la trama perderebbe ritmo, emozione e completezza.