Archivi tag: storia delle immagini

Fotoinnesti. Il podcast degli incontri inaspettati con la fotografia

 

FOTOINNESTI di Laura Manione

Prima stagione: LEGGERE DI FOTOGRAFIA, LEGGENDO D’ALTRO

Conversazioni con autori ed esperti, per conoscere e creare nuovi collegamenti con il fotografico
Episodio 1
Marco Introini: il paesaggio tra ascolto e osservazione
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 1
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 1

Episodio 2
Tullia Garzena: piccolo inventario fotografico del mondo
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 2
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 2

Episodio 3
Mario Cresci: percezioni felici
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 3
YouTube: Fotoinesti – Ep. 3

Episodio 4
Barbara Bergaglio: guardare e guardarsi attraverso la fotografia
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 4
YouTube: Fotoinnesti – Ep.4

Episodio 5
Alessandra Baldoni: fotografare per stare in pensiero
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 5
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 5

Episodio 6
Pierangelo Cavanna: ogni incontro è inatteso
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 6
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 6

Episodio 7
Andrea Botto: viaggio al centro dello sguardo
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 7
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 7

Episodio 8
Ottavia Castellina: foto di mondi con figure
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 8
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 8

Episodio 9
Tony Gentile: riconoscimenti, attrazioni e prese di coscienza
Ascoltalo su
Spotify: Fotoinnesti – Ep. 9
YouTube: Fotoinnesti – Ep. 9

 

Non è mai la stessa storia

IMG_6471

Nei laboratori che da anni tengo in alcune città italiane, inserisco un’ampia sezione teorica dedicata alla storia della fotografia.
Per mia formazione e per ragioni che cercherò di riassumere in questo articolo, l’approfondimento storico-culturale è una parte irrinunciabile dei miei percorsi didattici.
Voglio subito sgombrare il campo da ogni possibile insinuazione o fraintendimento. La mia scelta non è dettata dall’amore per quel nozionismo che trova compimento e compiacimento in una sterile e irritante esibizione di sapere.
No, i motivi stanno altrove.
La storia della fotografia, inserita dialetticamente nella storia delle immagini e contaminata da altre discipline, rappresenta una piattaforma di riflessione sul particolare momento in cui ci si ritrova a fare o trattare la fotografia.
La storia ci racconta il passato per inchiodarci al presente.
E lo fa ribadendo, per qualsiasi periodo preso in esame, la totale immersione degli autori nel loro tempo, tempo che, in grazia o a causa di congiunture irripetibili, ha determinato urgenze, connessioni, mentalità, gusti. È quell’essere dentro ad aver fatto e a fare la differenza, a garantire credibilità e autenticità e a scongiurare le “maniere”.
Guardare a ciò che è stato prodotto ci induce a prendere le distanze piuttosto che ad assorbire passivamente dei modelli. Certo la conoscenza ci permette di attingere a uno sterminato repertorio iconografico e ci dissuade dal rincorrere la chimera dell’originalità a tutti i costi, ma solo un senso critico modulato sul nostro presente può aiutarci a passare dall’imitazione alla citazione.
Perché se è vero – e secondo me lo è – che la fotografia, in qualsivoglia sua applicazione, ha valore unicamente se inserita in un sistema di relazioni e ricadute sociali, allora chi la pratica deve essere in grado di sentirsi parte integrante o disintegrante dell’ambiente e delle circostanze in cui vive e produce.
Ciò non significa togliere peso o fascino alla condizione solipsistica necessaria a ogni autore. Anzi, ciclicamente, come scriveva Ugo Mulas nel 1973 con una lucidità e un’intensità rare, è bene allontanarsi dal mondo per «capire cos’è questo sentirsi soli di fronte al fare, che cos’è non cercare più dei puntelli, non cercare più negli altri la verità, ma trovarla soltanto in se stessi […]».1
L’autore coincide con la sua opera, la inscrive nella sua biografia irriproducibile. Fotografa per se stesso, è legittimo e risaputo. Dopodiché, egli non si limita a parlarsi allo specchio. Si esprime – dal latino exprimere, premere fuori – spreme la propria sostanza in quel fuori che è la contemporaneità, alla ricerca di interlocutori.
Ecco, la storia insegna a sapersi collocare. Mi ripeto: chi ci ha preceduto l’ha fatto. Era immerso nel proprio tempo non tanto perché, banalmente, ne era coevo, ma perché lo determinava, a volte perfino anticipandolo.
Diffido di chi  di chi si rilascia l’”auto-patente” di incompreso, sottraendosi a ogni confronto oppure di chi si crogiola nella confort zone di partiti presi anacronistici e ristretti, responsabili, secondo Rosalind Krauss, dell’impaludamento della fotografia.2
Che si decida di imboccare strade affollate o – al contrario – di aprirsi un sentiero, la mappa su cui tracciare il proprio percorso non può che essere una mappa aggiornata in grado di fornire anche le nostre coordinate. Una cartina su cui apporre un segno che indichi: «io sono qui».
Infine, è proprio volgendo lo sguardo alla storia, che si finisce  – fatalmente – per smitizzarla, per non assumerla come una disciplina rigida e accademica.
Lo studio della storia non genera incanto, semmai apre al disincanto.
Non c’è un’unica storia della fotografia, vi sono diverse storie, anch’esse figlie di culture che si portano sulle spalle il peso di epurazioni e di celebrazioni indegne.
Del resto, come scrive Georges Didi-Hubermann in Scorze, «la cultura non è la ciliegina sulla torta della storia: è ancora e sempre un luogo di conflitti nel quale la storia stessa assume forma e visibilità nel cuore delle decisioni e delle azioni, per quanto “barbare” o “primitive” possano essere». 3
Dove siamo, dunque? Come ci siamo arrivati? Ma, soprattutto, cosa intendiamo fare?
Buon 2018!

1  Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Einaudi, Torino, 1973
2  Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996
3  Geroges Didi-Hubermann, Scorze, Edizioni Nottetempo, Roma, 2014