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Soli

Orlando_Furioso_3.jpg Gustave Dore
Gustave Doré (1832 – 1883), “Angelica incontra un eremita”, illustrazione tratta dall'”Orlando furioso”.

Sono tre gli spunti che convergono in questo articolo.
Primo: la definizione enfatica e stratificata di “magnifici randagi” che Ando Gilardi diede dei fotografi ambulanti, pionieri della fotografia.
Secondo: la lettura di due libri legati alla tradizione orientale ortodosso-cristiana, ovvero Racconti di un pellegrino russo, attribuito con incertezza allo ieromonaco Arsenij Troepol’skij e Il deserto parla di Lucien Regnault.
Terzo: il mito della caverna di Platone, da molti ritenuto uno dei pilastri ontologici su cui poggia la fotografia.
Qual è il file rouge che unisce questi tre percorsi assai differenti fra loro? La solitudine o – per amor di precisione – l’eremitaggio.
Soli con il loro andare, barattando quel po’ di sostentamento economico con un ritratto, furono i “magnifici randagi” cui Gilardi riservò giustamente un posto centrale e oserei dire quasi sacrale nella storia della Fotografia.
Soli, alla ricerca di una verità ineffabile, vissero gli eremiti che sfidarono la steppa o le immense distese di sabbia, disposti esclusivamente a incontri fugaci, avvezzi a esprimersi – in particolare i Padri del deserto – mediante apoftegmi, vale a dire mediante brevi sentenze auto-conclusive delimitate da una sorta di margine linguistico – formale, assai simili a un’illustrazione.
Isolati, incatenati spalle al mondo, gli uomini che Platone, nel libro settimo de La Repubblica, collocò in una caverna la cui parete fungeva da schermo per la proiezione di una realtà sempre filtrata e perciò mai esperibile.
Per sbrogliare la matassa del mio ragionamento, dal ginepraio di significati contenuti nel “gettonatissimo” mito classico, non mi serve che un unico elemento: la caverna. La caverna come spazio fisico prodromo della fotocamera, poiché, come avrete intuito dagli indizi finora disseminati, ciò su cui intendo brevemente riflettere è la componente eremitica che vive o sopravvive (in una contemporaneità tutta votata alla condivisione, seppur virtuale) dentro ad alcune persone che praticano la fotografia e si impegnano a comprenderla a fondo.
Non sulla solitudine romantica del fotografo, irrorata da fiumi di inchiostro e sovente intrisa di oleografia, vorrei interrogarmi, ma su un preciso e assai più potente desiderio del fotografo. Quello di sottrarsi al mondo, rifuggendolo in un’infinita sequenza di attimi, per meglio meditarlo, mediarlo e rappresentarlo.
Non ho risposte certe, le fonti a cui sto attingendo non sono ancora sufficienti. Ho invece alcune domande, che pongo, in primis, a me stessa e poi ai miei lettori.
Cosa va cercando chi si porta appresso una piccola caverna in grado di offrire ricovero alle sue visioni più intime?
Oltre a essere un rifugio accessibile solo a chi la usa, la fotocamera, in qualità di apparecchio che misura e “spezza” il tempo, potrebbe essere un ipotetico sostituto della clessidra, tradizionalmente associata all’iconografia dell’eremita per simboleggiare la caducità della vita e delle cose? Le immagini, destinate anch’esse a scomparire, non sono in fondo che una disperata rincorsa all’eternità: passano come granelli luminosi attraverso un foro sottile per andarsi a depositare su una pellicola o una scheda di memoria. Ogni sessione di ripresa un capovolgimento e un nuovo fluire…
Allontaniamoci dall’armamentario tecnologico. Allontaniamoci anche geograficamente. Pensiamo per un istante all’aspetto meditativo dell’eremitaggio e confrontiamolo con quella feconda produzione proveniente dal Giappone, che sull’antico concetto filosofico di vuoto sta costruendo una delle più interessanti pagine della fotografia contemporanea, forse fra le poche capaci di contrastare l’horror vacui che ha per secoli caratterizzato l’arte figurativa Occidentale. Vuoto che è territorio sconfinato e spopolato, attesa, libertà mentale, predisposizione solipsistica e inviolabile al manifestarsi della meraviglia. Che è anche tecnico e tecnica. Che è pensiero riversato sulla composizione.
Non so, l’ho anticipato. Non so quanto romiti e randagi, poco importa se magnifici, siano per loro stessa natura certi fotografi. Ma so che a volte mi piace immaginarli così. Attivi in luoghi inaccessibili allo sguardo. Innamorati dell’invisibile. Soli, per scelta.